Valerio la Martire presenta Intoccabili, pubblicato da Marsilio nel 2017, alla libreria italiana di Parigi.
Ci vado più per evitare di passare due ore da sola con me stessa che perché realmente interessata all’argomento. E invece…
Lui è un giovane autore, brillante, capace di non perdere il sorriso neanche quando si appresta a raccontare com’è fatto l’inferno. Il suo racconto, questa sera, mi ipnotizzerà. La storia è di quelle che davvero meritano di essere raccontate, e il libro è scritto bene.
Nel dicembre 2013 un bambino di due anni si ammala in un villaggio della Guinea: è il presunto “paziente zero” di quella che sarà la più grave epidemia di Ebola mai affrontata dall’umanità, e che durerà fino al giugno 2016.
Intoccabili è la testimonianza di un operatore umanitario, Roberto, un medico italiano che parte in missione con Medici Senza Frontiere per i paesi colpiti dall’epidemia. È la testimonianza lacerante, da medico e da uomo, raccontata alla prima persona dall’autore che dà voce al racconto straziante eppure composto di chi ha visto coi suoi occhi l’inimmaginabile.
Ho imparato a riconoscerla nei passi stentati dei pazienti, nello sguardo vitreo che non chiede nemmeno più aiuto, nel tremore incontrollabile che impedisce di tenere un bicchiere d’acqua o un cucchiaio di minestra in mano. In quei volti che sai che non vedrai più il giorno dopo, perché non arriveranno a domani.
Il testo è il frutto dell’incontro fra l’autore e il protagonista, entrambi collaboratori di Medici Senza Frontiere: qualche telefonata, un appuntamento, un racconto, e la decisione di farne un libro.
Tutti abbiamo in mente i titoli dei giornali e le immagini alla televisione. Tutti siamo stati colpiti, a tutti probabilmente ha fatto un po’ paura. Ma a tutti è sembrato lontano. L’Ebola era lontana, un rumore di fondo mentre le nostre vite continuavano.
Ma Roberto, e molti altri, hanno dovuto farci i conti, affrontarla, e poi tornare indietro e cercare le parole per raccontarlo.
Da uomo si è trattato di guardare negli occhi una sofferenza umana inimmaginabile, da medico si è trattato di essere quasi impotente di fronte a questa sofferenza.
Roberto riceve una chiamata e non esita neanche un momento ad accettare quella che, sa già, non sarà una missione come le altre. Da lì, un incontro nella sede di Roma di Medici Senza Frontiere, poi la formazione nel centro operativo di Bruxelles, e poi la partenza.
«Roberto, ben arrivato, io sono Jackson».
Allungai la mano per stringerla, lui mi sorrise e non alzò il braccio.
No touch mission.
Missione dove il contatto è proibito.
La trasmissione della malattia all’uomo avviene da un contatto con un animale infetto. Una volta contagiate, le persone trasmettono il virus attraverso tutti i fluidi corporei. Non solo il sangue e la saliva, ma anche le lacrime e il sudore. Se si stringe la mano a una persona malata, o le si tocca la pelle che può essere sudata, e poi ci si strofina gli occhi, ci si ammala. Il virus dalle mani passa agli oggetti, e quindi tutto può diventare fonte di contagio. Ciò vuol dire che non è consentito nessun contatto fisico, che il contagio avviene con impressionante facilità, che per proteggersi bisogna prendere precauzioni estreme, e che i malati vanno isolati. Bisogna cambiare tutte le abitudini, il modo di pensare, le reazioni spontanee: un gesto insignificante compiuto per abitudine può costare la vita.
Per l’Ebola non esiste cura, ma il corpo umano è capace di sviluppare degli anticorpi in grado di sconfiggere la malattia. Solo che in genere si muore prima che questo processo possa aver luogo. Tutto ciò che si può fare nei centri di trattamento è aiutare i malati in questa corsa contro il tempo, aiutarli a resistere, a sopravvivere abbastanza da dare il tempo al loro corpo di reagire creando questi anticorpi.
Intoccabili racconta benissimo il senso di impotenza di un medico che non solo non può fare granché per curare, ma a cui è sottratta anche la possibilità di accompagnare umanamente come vorrebbe coloro che se ne vanno. I medici sono delle specie di astronauti che si muovono dentro degli scafandri che impediscono anche il contatto visivo con i pazienti.
Vengono raccontati la vita e il lavoro nel centro, i protocolli da seguire, e le relazioni con i pazienti e fra gli operatori.
Viene raccontato come ogni mattina, e questa è una delle immagini più strazianti, gli operatori si avvicinino al cancello del campo, dove una folla di ammalati si accalca per chiedere aiuto, per selezionare quei pochi che si possono far entrare. Il campo è drammaticamente insufficiente, per dimensioni e per risorse, per accogliere tutti coloro che ne avrebbero bisogno, e ogni giorno si ammette un numero di pazienti corrispondente al numero dei morti che si sono contati dal giorno prima e che hanno liberato un letto.
Come è facile immaginare, e come ben dice il testo, si tratta di una scelta mostruosa, si tratta di cercare “il giusto compromesso umano, etico e scientifico tra i pazienti da far entrare nel centro e quelli da lasciare fuori”.
Cos’è meglio? O cos’è meno peggio? Ammettere quelli che stanno peggio sapendo che comunque moriranno, o ammettere quelli che sembrano avere più possibilità di resistere e magari guarire davvero?
Uno dei casi più atroci raccontati dal testo è quello di un padre che si pressa al Gate con il suo bambino che visibilmente sviluppa i primi sintomi della malattia ma è ancora in piedi e riesce ancora a camminare da solo. Roberto gli nega l’accesso. “Il papà prese in braccio il bambino e me lo mostrò ancora, come se a vederlo bene non avessi potuto rifiutarlo […]. Quell’uomo mi fissò a lungo mentre indicavo altri malati da far entrare, senza giudicarmi, solo sperando”.
Questo papà tornerà tre volte a chiedere di salvare suo figlio. Le condizioni del bambino chiaramente peggiorate, Roberto non riesce a dire no per la terza volta e lo prende con sé. Il padre prima di lasciarlo nelle mani dei medici, lo accarezza sapendo che sarà l’ultima carezza.
L’immagine di questo padre con il suo bambino in braccio, di questa sofferenza indicibile, eppure degna, composta, mi ha spontaneamente riportato alla mente una delle pagine più belle e commoventi della letteratura italiana. La madre di Cecilia, che ne I promessi sposi di Manzoni porta in braccio il corpicino della sua bambina già morta, uccisa dalla peste, è come questo padre che, quattro secoli dopo, porta in braccio il corpicino del suo bambino, fra poco morto, fra poco ucciso dall’Ebola.
Manuela Corigliano
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