Racconto: Blues del mio vecchio – Alberto Lucchini
L’ambulanza raccolse il povero vecchio vicino alla stazione. Lo trovarono sdraiato su una panchina. Erano passate le tre di notte.
«Aiutami ad alzarlo» disse un infermiere al collega.
Non senza qualche difficoltà lo portarono sull’ambulanza. Puzzava di vino e aveva il naso rotto.
Arrivati in ospedale due infermieri portarono a braccia il povero vecchio dentro il pronto soccorso. Lo lasciarono sopra un lettino nel corridoio.
«Stia qui, quando sarà il suo turno la chiameremo» gli disse uno dei due.
Il povero vecchio cominciò a guardarsi intorno. Sentiva pulsare il naso e aveva perso molto sangue. Sulla camicia notò una grossa chiazza rossa. Sembrava una macchia di pomodoro.
Nel corridoio si era formata una lunga fila di persone, tutte in silenzio. Erano almeno una quindicina disposte in pochi metri.
“Che cosa faccio qui?” pensò il povero vecchio. Si sentiva stanco e sentiva sempre quel naso pulsare, ma non gli andava di stare lì. Anche perché non ricordava come ci era finito.
Un bambino continuava a fissarlo. Lui allora allargò la bocca in un sorriso amichevole, ma riuscì solo a impressionarlo: subito si avvicinò a quella che doveva essere la madre e si strinse a lei. Con la lingua il povero vecchio si accorse di avere una fessura tra un dente e l’altro, sul davanti. Era grossa, notò, perché la lingua ci passava benissimo. Controllò guardandosi riflesso alla spalliera del suo letto e vide che aveva perso due denti.
Era uno spettacolo disgustoso e decise di non guardarsi più.
Stette ancora qualche minuto sul suo lettino, seduto con le gambe a penzoloni. Continuava ad arrivare gente e si cominciava a stare stretti. Arrivarono di corsa due infermieri.
«Si alzi e si metta da quella parte» disse uno di loro al povero vecchio, indicandogli un punto imprecisato del corridoio.
«Abbiamo bisogno urgente di questa barella» gli disse poi spingendola fuori.
Il povero vecchio si mise allora con la schiena contro il muro. Si lasciò scivolare fino a terra e si mise seduto. Piegò leggermente la testa ma non gli riusciva di dormire per quel maledetto pulsare.
“Basta, mi faccio un giro”.
Si rialzò e si diresse verso l’uscita del pronto soccorso. Passò vicino al bambino di prima, che ora lo guardava in modo timoroso. Il povero vecchio gli rifece ancora il suo sdentato sorriso e il bimbo si mise a piangere.
Girò un bel po’ per l’ospedale e gli infermieri che incrociava non gli davano noie. Solo qualcuno lo fermava per chiedergli che stava cercando, e lui ogni volta diceva di cercare il pronto soccorso e che si era perso.
Salì su una rampa di scale fino a un portone. Lo aprì e si trovò lungo un corridoio quasi completamente al buio, illuminato solo dalla luce dei lampioni sulla strada. Gli piaceva quell’atmosfera, quella poca luce e il fatto che non ci fosse nessuno. Si accese una sigaretta e guardò fuori da una finestra il buio della città. Stava riacquistando un minimo di dignità, o almeno decenza nei propri confronti.
Era parecchio che non provava quella sensazione.
Finì la sigaretta e riprese a camminare per il corridoio. Le porte erano tutte chiuse tranne una, in fondo, che era accostata. Entrò.
La stanza era piccola, c’era un televisore su una mensola sulla destra e un letto sulla sinistra superato il bagno. Sul letto era disteso un paziente. Aveva un grosso tubo che partiva dalla bocca e lo univa a una grande macchina messa vicino alla sponda del letto. La macchina faceva il rumore di una piccola ventola.
Il povero vecchio si avvicinò incuriosito e attento che non arrivasse nessuno. Vide che il paziente era una donna. Anche se aveva quell’enorme tubo attaccato alla bocca, era molto bella. Pensò che doveva avere trent’anni, non di più. Dormiva profondamente, e il povero vecchio cominciò a fissarla. Il suo sguardo prima contemplò il suo viso, poi scese a osservare tutto il corpo. Con la mano il povero vecchio sollevò la coperta e la fece cadere di lato.
Rimase qualche istante immobile per controllare che non si svegliasse.
Aveva una vestaglia che le lasciava scoperte le gambe. Erano molto belle, e al povero vecchio piacevano ancora di più illuminate dalla luce dei lampioni sulla strada. Cominciò ad accarezzarle. La donna continuava a dormire, allora il povero vecchio continuò. Poi vide i suoi abbondanti seni. Un capezzolo fuoriusciva dalla veste e al povero vecchio dava un senso materno. Appoggiò delicatamente le sue labbra sul capezzolo e succhiò come un neonato. Poi appoggiò la testa sui seni e rimase così, guardando la luce dei lampioni dalla finestra.
Stette lì molto tempo. Non si accorse quanto, ma intanto il naso non lo sentiva più pulsare. Poi si tirò su e riguardò il viso della ragazza. Le baciò la fronte, la ricoprì e uscì dalla stanza.
Si incamminò lungo il corridoio verso la porta da cui era entrato. A pochi metri, la porta si spalancò ed entrò un’infermiera.
«Che ci fa qui?» gli fece. «L’orario di visita è terminato da un pezzo. A quest’ora possono entrare solo gli infermieri o i dottori» lo rimproverò.
«Non le sembro un dottore?».
«Esca subito! E mi dica che ci fa qui». abbaiò l’infermiera.
«Esco o le dico che ci faccio qui?».
«Se le va di scherzare chiamo immediatamente qualcuno! Mi dica da dove è entrato!».
«Cercavo solo il pronto soccorso».
«È al piano terra, ma non si gira per l’ospedale così. Chiamo un collega e la faccio accompagnare. Aspetti qui» e discese le scale.
Quando non la vide più il povero vecchio scese anche lui le scale e uscì dall’ospedale.
Il naso aveva ripreso a fargli male, ma ormai aveva deciso che sarebbe tornato a casa.
Alberto Lucchini