C’è un momento nella vita di ognuno di noi nel quale viene in atto una separazione. Il giovane che lascia la casa paterna, il figlio che dà l’ultimo saluto al genitore spirato, la madre che vede il figlio cominciare una propria vita.
E questo se ci riferiamo al solo rapporto fra le persone. Ma le separazioni – e dunque l’assenza e il ricordo, e la mancanza – avvengono anche nei confronti di oggetti, luoghi, parti stesse della nostra esistenza.
La vita di Amaia, protagonista di Meglio l’assenza di Edurne Portela (Lindau, 2019), è fatta di continue sottrazioni, seguite da tentativi di adeguarsi alle nuove battaglie. È un continuo cedere e cambiare, rinunciare. È un vivere nonostante.
Questo romanzo è prima di tutto una storia di famiglia. Un padre, una madre, quattro figli (e a margine: una domestica, una nonna). Una famiglia che – sarà chiaro sin dalle prime pagine – si sfalda.
Viviamo la decostruzione attraverso gli occhi di Amaia, dapprima bambinetta e via via sempre più adulta – prima del tempo – mentre i capitoli si susseguono scanditi dagli anni. È infatti una sequenza temporale, questo romanzo: dal 1979 al 1992, con una chiusura ambientata nel 2009.
Ma di quale assenza stiamo parlando, davvero? Prima di tutto, di quella del padre. Aita, come viene chiamato Amadeo, comincia ad assentarsi e lo fa sempre più spesso. In un primo momento vediamo attraverso lo sguardo ingenuo di Amaia dei problemi ancora indecifrabili, dei viaggi senza motivo, poi Amaia cresce, comincia a comprendere, ed è chiaro che Aita picchia Ama, sua moglie, che è un violento, che è una persona con dei segreti che tutti sembrano conoscere tranne lei, tranne Amaia.
Ma l’assenza è anche quella del fratello maggiore, Anibàl. Volontaria in un primo momento – per sfuggire a quella famiglia e alle sue meccaniche – e poi obbligata con una prematura morte. E gli altri fratelli, uno violento e preso dalle lotte per l’indipendenza Basca, un delinquente, l’altro che si rifugia nei libri, nell’università, nel lavoro, che si innalza sopra la bassezza della loro condizione e finge di non vederla più. E infine Ama, sua madre, che è assente nonostante sia sempre lì, nei rari momenti di lucidità fra un bicchiere e l’altro.
Eccola, l’assenza. La solitudine che non è soltanto mancanza fisica, ma incapacità di comunicare, di trovarsi, di sostenersi. L’assenza è dover affrontare tutto da soli perché nessuno è disposto davvero a darci una mano. L’assenza sono i silenzi colpevoli, i «sei troppo piccola, non capiresti», i pianti inspiegabili dopo ogni telefonata.
Eccola, l’assenza. Tutto ciò che sarebbe dovuto esserci, intorno e per Amaia, si allontanava sempre più, come un fascio di rette che necessariamente prendono direzioni diverse le une dalle altre, e nel proseguire si allontanano ancora, allargano gli spazi, creano intercapedini di parole non pronunciate e azioni mai realizzate. Ed è quella, l’assenza.
Eppure, parlando d’assenza abbiamo descritto una dinamica terribile. Una bambina che cresce in un ambiente violento, con pochi affetti che via via si diradano. Come può essere meglio l’assenza? Come può essere preferibile restare soli?
Certo, con il padre è comprensibile. Una persona brutale, che è solo l’ombra dell’Aita che Amaia ricorda nell’infanzia, quello che le dava i pizzicotti sulla pancia. Ma il suo sentimento diventa costante. Persino la sorte di Anibàl è preferibile, e la morte – in fondo – l’ultima evoluzione di ogni assenza.
Ci sono allora due aree nella sua vita in cui è meglio l’assenza. Da una parte c’è quella classica. L’assenza del padre provoca dolore, ma meno di quanto ne provocherebbe la sua presenza. Dall’altra, l’assenza volontaria, il sacrificio per ottenere uno scopo.
Nei primi capitoli Amaia porta il proprio peluche – quello in copertina – dal fratello e lo strappa davanti ai suoi occhi. Lo fa per dimostrare di essere grande, di poter capire. È un sacrificio, quello, che provoca un’assenza. Ma è un sacrificio che Amaia era disposta a fare.
Quando Amaia si deciderà a scrivere, sarà impossibile non raccontare la sua storia. Ed è in questo punto che ci viene raccontata la vicenda dietro Aita, dietro gli spostamenti, i viaggi, le assenze. Ma, ecco: è una ricostruzione di Amaia o sono fatti veramente accaduti? Perché il dubbio, in tutta la lettura del romanzo, resta: è davvero meglio, l’assenza? Oppure è solo un contentino che ci diamo, una convinzione alla quale aggrapparci, per non dire che in fondo tutto poteva andare meglio, che c’era tanto da salvare, e che l’assenza no, non era la cosa migliore. In fondo, come ammette Amaia stessa, «Ognuno […] sopravvive come può».
Scritto con una capacità mimetica formidabile, Meglio l’assenza è un romanzo forte, estremo, che affianca trent’anni di storia dei Paesi Baschi alla vicenda intima e personale di una famiglia. Una dimensione familiare che è data dall’uso continuo di Aita e Ama, raramente dei nomi e sempre fuori dal contesto filiale. Come a dire che può succedere tutto, eppure – anche nella più dolorosa delle assenze – sopravvive quell’ingenua tenerezza propria dei bambini.
Maurizio Vicedomini
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