Ha un grosso naso e mente a una donna angelica, ma non è Pinocchio. È il Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand, preceduto di un quarto d’ora dal suo naso e di 14 anni dal nostrano burattino. Nasce appunto il 28 dicembre del 1897, quando al Théâtre de la Porte-Saint-Martin di Parigi andò in scena la Prima della commedia più celebre e più riprodotta del teatro francese. Quella notte iniziò il glorioso viaggio che tutti conosciamo.
Quello che non conosciamo e che Alexis Michalik ci racconta nel suo Cyrano, mon amour (Edmond nel titolo originale, 2019) è ciò che venne prima: gli insuccessi di Rostand (Thomas Solivéres) e i suoi contrattempi, l‘amicizia con Sarah Bernhardt, il sostegno religioso della moglie Rosemunde, il rifiuto della Comédie-Française con l’aggiunta romanzata – «al fin della licenza» – della sovrapposizione vita/scrittura a mo’ di Shakespeare in Love, ispirazione dichiarata del regista.
Nelle pagine di storia Edmond Rostand è stato eclissato quasi totalmente dal suo Cyrano: basti pensare che, di lui, fino al 2003 non esisteva una biografia completa in lingua inglese. Di per sé di poco appeal, le sue vicende vengono perciò legate da un filo trasparente a quelle del suo personaggio; se allo spadaccino «per quel suo naso al piede, è proibito il sogno d’un amor», al suo artefice è proibito il sogno del successo per il suo ampolloso scrivere in versi.
Cyrano davanti alla prospettiva di poter vivere di sole illusioni reagirà come l’eroe romantico che è «amando, come è inevitabile, la più bella che c’è»; Rostand invece amando chi in lui nutre stima e ammirazione. Prima è successo con la moglie e adesso con la costumista di cui il suo caro amico Léo (Tom Leeb) si invaghisce, Jeanne (Lucie Boujenah). Da questo amore poco pregevole e a tratti platonico dettato dalla fusione di insicurezza e egotismo – dove l’altro è uno specchio attraverso il quale amare se stessi – riuscirà a dare alla luce uno degli amori più puri e ammirevoli del teatro francese.
Tutto comincia quando a Edmond capita l’occasione di scrivere una pièce per il grande attore Coquelin (Olivier Gourmet). Purtroppo, però, è a corto di idee. Léo sta cercando di fare innamorare Jeanne ma non gli vengono le parole. Sotto il balcone della ragazza si crea l’intreccio: Léo riesce ad ammaliare Jeanne grazie ai versi che traboccano dalle labbra del nascosto Edmond. Da qui lui prende la trama della sua opera e anche l’ispirazione.
Quantomeno particolare che un film di questo tipo non fosse ancora stata girato in Francia, dopo che in Inghilterra più volte è stata fatta questa operazione con Shakespeare. È probabile che i francesi siano sempre stati più reticenti a mettere da parte le ambizioni artistiche. Il film, proprio come i suoi precursori in questo particolare genere, non ha un intento documentario quanto piuttosto di intrattenimento. Infatti quello che ne deriva è una commedia degli equivoci dove, tra le molte evidenti coloriture, è opportuno specificare l’infondatezza storica di ciò che all’apparenza è più clamoroso: Rostand non scrisse l’opera in sole tre settimane.
Il solo modo di riprendere in mano la storia di Cyrano è lasciargli spazio. Ogni parola di troppo potrebbe inquinare la limpidezza di questo amore, la perfezione dei suoi versi. Questo Michalik lo capisce e lo realizza sufficientemente bene, se non fosse per qualche inciampo fisiologico in alcuni scambi di battute pretenziosi e un po’ banalotti – «per noi attori non esiste il domani» – in cui il regista appare come un’ombra che si confronta col sole.
Michalik è un nuovo Christian. Il pianto su questa sceneggiatura è di Rostand, «ma quel sangue è di lui», sembra tuttora dire un signor di Bergerac morente «d’un colpo inopinato».
Le trame amorose sono marginali e rimangono sullo sfondo alla genesi e conseguentemente al trionfo dello spettacolo. Questa è l’altra pecca del film. D’altronde nell’andare al cinema a vedere Cyrano, mon amour si hanno nella testa i versi più memorabili e iconici dell’opera e nel cuore la voglia di sentirli di nuovo, per quella corrente poderosa che originano le storie d’amore leggendarie. E da ciò l’umana incapacità a sottrarvisi.
Ci lasciamo catturare dalla possibilità di farsele raccontare ancora e ancora. Encore per Lacan è la domanda dell’amore, la felicità per Kundera è desiderio di ripetizione. Quella di una Roxane trascurata in convento che attende il sabato pomeriggio, l’arrivo di chi «per 14 anni mantenne il segreto recitando la parte dell’amico faceto» riportandole in versi le vicende della settimana parigina. La quale scopre nell’ultimo gazzettino, quello in cui Cyrano annuncerà il suo stesso assassinio, «quante cose nate e morte in un momento» possono ancora comparire. E ancora e ancora. Encore. Rendendo il suo amore immortale perché negato anche alla morte: «no, mio caro amore, io non ti ho mai amata».
«Fisico, filosofo eccellente.
Musico, spadaccino, rimatore,
del ciel viaggiatore,
Amante, non per sé, molto eloquente,
Qui riposa Cyrano
Ercole Saviniano
Signor di Bergerac,
che in vita sua fu tutto e non fu niente!»
Fabrizio Sani
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