Un corridore in bicicletta ce l’ha negli occhi la fatica, una rassegnazione mista a insofferenza, come gli occhi degli schiavi, incatenati alle triremi per i quali arrivare o morire era quasi la stessa cosa.
* * *
Ottavio aveva vent’anni, vent’anni o poco più e a quell’età sai essere sincero e ti piace andare a cercare chi nel mondo ti farà felice e sei convinto che non sia lontano.
Lui correva in bicicletta perché aveva le gambe buone, come gli dicevano gli amici. A vederlo era mingherlino, con muscoli come elastici. (C’è una sua fotografia, scattata all’arrivo della tappa del Tour de France del 1923: Le Havre – Cherbourg, guardatela vi prego, dove Ottavio Bottecchia è circondato di tifosi. Ha i fiori del vincitore che pendono dal manubrio, una maglietta stracciata, il tubolare di scorta di traverso sulle spalle, le gambe nere di fango, sembra un cavallino che si riposa e ai piedi porta delle strane scarpette come quelle dei toreri. Tutti sorridono e si vogliono far fotografare con lui, solo Ottavio è serio e guarda fisso nell’obbiettivo. C’è un mistero in quello sguardo, non si capisce cosa lo stia tormentando, non si illude sembra che sappia già come andrà a finire).
Passarono quattro anni da quella foto e arrivò il 3 giugno 1927. Durante quei quattro anni, Ottavio continuò a pedalare e a vincere come il grande campione che era. A quei tempi un campione non tornava mai a casa, non amava, non discuteva di politica, per i tifosi un campione pedalava anche la notte e anche all’alba quando tutti dormivano, anche quando grandinava e gli altri stavano alla finestra a guardar fuori i chicchi di ghiaccio che rimbalzavano. Un campione, per la gente, era condannato dal destino, dalla fantasia del mondo, era costretto a correre come le nuvole. Lui esisteva solo in sella e le sue gambe giravano anche quando la luna non c’era e i grilli d’inverno scomparivano chissà dove.
E così Ottavio pedala nella sua solitudine e pensa che non è giusto che ci siano i ricchi e i poveri e diventa socialista senza saperlo, quasi senza volerlo. È il suo sudore che lo consiglia e anche tutta quella polvere e gli occhi rossi che piangono e le lacrime che cadono e si confondono con quelle della fatica. Sono gli anni del Fascismo e qualcuno incomincia a sospettare di lui. Sì! C’è qualcuno che sta a guardare ma non gli interessa di vedere se è in testa al gruppo, qualcuno che vuole capire se è pericoloso, se è da tener d’occhio. Quello lì sparge la voce fra i camerati e c’è sempre qualcuno che inventa o anche solo che dà la sua interpretazione per… il bene del Duce. Un giorno dicono a Ottavio che suo fratello Giovanni è morto, suo fratello più piccolo, e lui si dispera senza farlo vedere, ma si dispera così tanto che il suo viso diventa ancor più triste e le pieghe diventano quasi dei disegni fatti dalla Tristezza un giorno che aveva in mano un punteruolo che faceva male e che lasciava il segno. “Giovanni non ci sarà mai più e io vorrei andare da lui” “Giovanni ha saltato quel fosso che ha una riva sola, quel fosso che dovrò incontrare anch’io. “Lui ce l’ha fatta a fare qual salto, io son capace solo di pedalare, fino a strapparmi il cuore”.
Intanto c’è chi dà ordini segreti. Sono poche parole ma chi le ascolta sa intendere bene, non c’è dubbio, quella è gente che non si sbaglia e che sa eseguire un comando, perché l’importante è estirpare alla radice, appena c’è un segnale, un’avvisaglia, bisogna usare il bisturi e tagliare; colpire per salvare la Patria dal nemico che si annida tra di noi.
È giugno e ci sono le albicocche arancioni e mature e piante di prugne, quelle dolci, quelle nascoste. La strada è bianca e senza nessuno; di lunedì non c’è motivo di andare in paese e la campagna sembra uno strano deserto fatto di sole, di alberi bassi pieni di frutta e di uccelletti che frullano tra i rami infischiandosene del contadino. Ottavio pedala per quella carraia. Ci son solo le lucertole che stanno immobili a guardarlo passare. La catena fa il solito cigolio, quasi la lontana nota di un oboe che l’accompagna da anni. Quel giorno Ottavio si ferma, scende, appoggia la bicicletta a un paracarro e si avvicina a un albero di prugne. “Adesso potrei essere già morto, se fossi caduto giù per qualche discesa, là nelle Dolomiti, un colpo e sarei dov’è Giovanni”. Qualcuno sembra che gli abbia letto nell’anima. C’è per strada chi lo segue, chi non lo perde di vista perché ha un ordine da eseguire. Ferma l’auto, scende, prende da sotto il sedile un manganello e salta il fosso per andare tra i prugni. Ottavio lo trovano, con la testa spaccata e le mosche che ronzano all’imbrunire sulla pozza di sangue. Non c’erano orme su quel campo duro dove non pioveva da tempo e le foglie dei prugni erano opache di polvere. Erba secca e sassolini, impossibile credere che qualcosa l’avesse fermato per sempre. Era l’ora di tornare a casa, era l’ora di chiudere, di smettere di far fatica, era l’ora di non pensare più a niente. Era arrivato quel momento.
Riccardo Ferniani
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