Qual è il nesso tra dipendenza e linguaggio? Con Soffocare (Mondadori, 2003), Palahniuk prova a scandagliare le profondità del linguaggio, e lo fa scrivendo un romanzo che si basa sulle dipendenze e sulle difficoltà che accompagnano chi pensa di poter completare il puzzle della propria vita.
Victor Mancini, il protagonista, ogni sera si autocostringe a inscenare il proprio soffocamento in vari ristoranti. Mostrandosi indifeso agli occhi della gente, mira a ottenere da loro il denaro necessario per pagare la retta ospedaliera alla madre.
Se uno ti salva la vita, poi ti ama per sempre. A fingerti debole acquisisci potere. E al tempo stesso fai sentire le persone più forti. Lasciandoti salvare, tu salvi loro. (Pag. 51)
Il rapporto di dipendenza che si instaura tra lui e i molteplici salvatori va mischiandosi con una serie di altre dipendenze e deviazioni – perlopiù di natura sessuale – che lo costringono alla passività, a lasciare che siano le dipendenze stesse a strutturare la sua vita. La sola circostanza che lo tiene ancorato alla realtà sono le visite in ospedale alla madre.
Palahniuk si conferma uno scrittore da speed date (l’incipit di Soffocare recita: “Se stai per metterti a leggere, evita”), così a suo agio nel disseminare elenchi e frasi minime da immaginarlo, durante la stesura di Soffocare, immerso in una vasca di post-it.
A differenziare l’opera in esame dagli altri suoi romanzi è il modo con cui usa il pretesto della storia per indagare su cosa si trova al di là della scrittura, poiché “L’unica frontiera che ci rimane è il mondo dell’intangibile. Tutto il resto è cucito troppo stretto.” (Pag. 149)
Il protagonista è però fin troppo passivo per assolvere tale “compito”, quindi Palahniuk sviscera la questione introducendo alcuni flashback di quando la madre di Victor era ancora in forze e pronta a trasmettere la propria filosofia di vita al figlio.
Lo scopo della madre era quello di raggiungere la semplificazione del tutto – risalire a prima del morso della mela, prima che il linguaggio saturasse il nostro modo di vedere – fino a riconquistare una dimensione prelinguistica di conoscenza delle cose, originaria, più vera e profonda, spogliata dalle sovrastrutture che il linguaggio ha imposto, anche in maniera violenta in quanto univoca.
Il linguaggio è un setaccio che filtra la conoscenza e a noi non rimangono che le polveri sottili.
Il grande obiettivo è scoprire una cura per la conoscenza. […] Per le cose che ci insegnano. Per il fatto di vivere dentro la propria testa. Il mio obiettivo non è quello di semplificarmi la vita. Il mio obiettivo è di semplificare me stessa. […] Le dipendenze sono solo uno dei tanti modi per curare lo stesso problema. Le droghe, la bulimia, l’alcool, il sesso sono solo strumenti per trovare un po’ di pace. Per sfuggire a ciò che conosciamo. A quello che ci insegnano. Il linguaggio altro non è che il nostro personale modo di spiegare lo splendore e la meraviglia del mondo. Oramai non viviamo più nel mondo reale, viviamo in un mondo di simboli. (Pag. 141)
Il personaggio materno del romanzo indica attraverso la semplificazione di sé – semplificazione intesa come oblio di se stessi quali esseri fatti di linguaggio e recupero di una condizione primigenia di pura creatura senziente – una via d’uscita dalla gabbia della realtà creata dal linguaggio, dal momento che troppe sono le nozioni che avvolgono ogni singolo oggetto.
Tendere a dimenticarsi è una delle massime aspirazioni per l’artista, e nel caso di Palahniuk lo scrittore cade in un paradosso: per dimenticare se stesso è necessario utilizzare la scrittura. Come uscirne, quando sono proprio le parole (intrise di significati che vanno ad aggiungersi con il tempo e l’esperienza) a ingabbiare l’artista?
Se il linguaggio è la prigione, le parole sono i secondini.
A Palahniuk non interessa trovare una soluzione o scoprire cosa si trova al di là del linguaggio: l’obiettivo – come dimostra quel retrogusto di polvere da sparo che permea i suoi romanzi – è di godersi la prigionia, sempre pronto a sfilare le chiavi della cella dalla tasca della parola/secondino di turno solo per il gusto di tintinnarle tra le sbarre.
Semplificare è dunque uno dei modi per togliere l’opacità dell’ovvio all’esperienza. Semplificare la vita attraverso una serie di dipendenze, come suggerisce il protagonista, o semplificare se stessi. Il modo, per Palahniuk, poco importa. Ciò che conta è rendersi conto di quanto molto spesso le parole altro non sono che tessere smussate di un puzzle fallato.
Possiamo passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo. Sani di mente o pazzi, stinchi di santo o sessodipendenti. Eroi o vittime. A lasciare che la storia ci spieghi se siamo buoni o cattivi. A lasciare che sia il passato a decidere il nostro futuro. Oppure possiamo scegliere da noi. E forse inventare qualcosa di meglio è proprio il nostro compito. (Pag.264)
Luca Pegoraro
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