Dimenticati nel cassetto: “Il ragazzo morto e le comete” di Goffredo Parise
Aveva solo vent’anni – in quell’inimmaginabile 1951 – quando Goffredo Parise scrisse il romanzo più poetico, macabro, surrealista e spiazzante del dopoguerra italiano.
Vivere ancora
“Il ragazzo morto e le comete” (titolo già bellissimo e a una prima, sfuggente vista, indecifrabile) è la storia di un ragazzo fisicamente morto ma “non morto del tutto”. Un ragazzo che rivive e sogna la sua palpitante giovinezza in un’umida e desolante città in disfacimento. È Venezia, probabilmente. Ma una Venezia immaginifica, mai nominata eppure totalmente presente nei suoi colori scuri, molli, umidi; nei suoi odori gravi, di morte e di melma.
Già questi elementi sono largamente sufficienti a immergerci nell’insolito mondo di confine dell’autore, dove vita e morte non conoscono margini di demarcazione e dove di conseguenza la sua scrittura può permettersi di scorrere liquida tra momenti (razionalmente) inconciliabili di passato e presente, nei quali si alternano la prima e la terza persona narrante. Le personali e mai scontate riflessioni dell’autore sulla morte e sul suo incerto rapporto con la vita finiscono, dunque, per confonderci. Per turbarci profondamente. Per lasciarsi a bocca aperta.
Ma “Il ragazzo morto e le comete” è anche un libro vitale, colmo com’è di rimandi all’energia inesauribile dell’amicizia, all’adolescenza e ai suoi fremiti. È una specie di raccolta sconclusionata e appassionante di volti, ricordi, immagini, terrori. Densa tanto di incongruenze logiche e di pensiero, quanto di “fratture narrative, di tempo e luogo”. È allo stesso tempo un pieno e un vuoto. Un lungo passaggio intorno alla morte, ma anche uno sguardo alla vita eterna. È un libro macabro, ma anche delicato. Il titolo – come abbiamo già detto bellissimo – ci svela presto tutto questo. Al suo interno, infatti, c’è già la morte e c’è già la vita.
Il ragazzo morto
In primo luogo, cosa sappiamo del protagonista? Poco o niente. Non il suo nome, per esempio. Ma presto scopriremo che un proiettile dalla traiettoria maligna gli ha forato la testa e ora giace a terra, attraversato da «grumi di vaghi pensieri». Il suo corpo è in disfacimento, ma i suoi pensieri continuano a insinuarsi e a dare senso alla vita degli altri. Il ragazzo morto non ha infatti perso parola. Non ha perso sostanza. Non è spirito, e anche qui c’è l’innovazione di Parise. Il rovesciamento della prospettiva. La morte è materia. Il ragazzo è concretamente morto ma allo stesso tempo qualcosa di lui sopravvive “fisicamente” tra le calli maleodoranti e gli angoli nascosti di una Venenzia lugubre e disperata.
Ma allo stesso tempo il protagonista non esiste. È un’idea, un’invenzione, un punto di oscurità intorno al quale si svolgono e avvolgono le vicende degli altri personaggi che continuano – invano? – a cercarlo, non arrendendosi all’orrore e all’insensatezza della morte.
Le comete
L’amico Fiore non si rassegna infatti alla sua morte e continua a cercarlo, in un’esistenza che sembra un eterno sogno sanguinante. Ma Fiore è l’emblema della vita, e – con la sua ostinazione – riuscirà a riscattare il vuoto e le sconfitte di tutte le comete (cioè di tutti i personaggi del romanzo), che altro non sono che incarnazioni bizzarre e amare di una serie di sconfitte esistenziali, seppur sempre in possesso della propria inesauribile dignità. Accanto a Fiore scopriamo una sarabanda di dolorosi emarginati: Squerloz, che vive con un barbagianni, una civetta e un topo bianco; Leopolda e Massimino, cadaveri ancora presenti nel mondo, egoisti e grotteschi nel loro aggrapparsi al desiderio di non perdere ciò che hanno in realtà a ben vedere già perso; Primerose, paralizzata nel suo letto ma non nei suoi pensieri; Antoine Zeno, suonatore di clavicembalo, omosessuale triste e commovente, che vola su una mongolfiera; Edera, prostituta innocente e primo amore del ragazzo.
Tutti questi personaggi barocchi eppure toccanti riescono a incuriosire il lettore e a commuoverlo, ma è impossibile per il senso stesso della trama non tornare sempre a Fiore, che non sa rassegnarsi alla solitudine e non smette di cercare il suo amico, pur avendo assistito alla sua sepoltura. Questa è la parte più tradizionale del romanzo, nella quale Fiore ricorda le mattine in cui marinavano la scuola, le sigarette americane, le corse in bicicletta. Possiamo sentire con una potenza evocativa assoluta il dolore che prova nel piegarsi all’idea che l’amico lo abbia lasciato per sempre. Ma ecco l’espediente narrativo che crea la poesia e l’innovazione di Parise: il ragazzo di quindici anni non è del tutto morto, perché grazie a Fiore continua a vivere, ma attenzione, non solo nei suoi pensieri. Vive davvero, seppure in un mondo parallelo di scomparsi. Uno spazio, cioè, nel quale il confine tra essere e non essere è inconoscibile e indecifrabile.
Ho aperto il cassetto perché…
Ogni aspetto di questo romanzo sovverte le regole conosciute di narrazione, aspettative, allusioni. È una storia notturna, angosciosa e macabra, ma anche bizzarra e surrealista. L’abilità di Parise nell’immergerci in un immaginario personale ed evocativo, misterioso e magico, è assoluta. Come anche la capacità di ribaltare le prospettive e l’ordine tradizionale dell’intreccio.
Il linguaggio, poi, è poetico, vibrante, carico di intensità. La lettura può apparire a prima vista non molto semplice, accidentata com’è da salti temporali e di narrazione, da sovrapposizioni di immagini, da scardinamenti logici, eppure – se ci si lascia trascinare – è in grado di avvolgere, turbare, emozionare. Di trascinare in un mondo poetico e nuovo, moderno e sconvolgente, che difficilmente riusciremo a dimenticare.
Se lo avete dimenticato nel cassetto, prendetelo in mano e apritelo a qualsiasi pagina.
Anna Pietroboni