La guerra dei cloni: Non lasciarmi e The Island
Non lasciarmi e The Island sono due opere uscite nel 2005, la prima data alle stampe e la seconda distribuita nelle sale. Il libro e il film sembrano un esperimento teso a dimostrare quanto possano differire due idee gemelle se affidate a uno scrittore, “artista dal mondo fluttuante”, e a un regista, re dei bang-crash-boombuster (evoluzione dei blockbuster). Che poi sarebbero, rispettivamente, Kazuo Ishiguro e Michael Bay.
Ciò che unisce questi due prodotti tanto differenti è il fondamento delle rispettive narrazioni, la risposta alla domanda: cosa succederebbe se potessimo creare dei cloni umani al solo scopo di avere degli organi da donare? Un interrogativo eticamente tanto distorto che era già stato trattato, in realtà, da un romanzo di Michael Marshall Smith, Spares, pubblicato nel 1998 da Tor e mai tradotto in Italia.
Partendo da questa radice comune, Non lasciarmi (in originale Never Let Me Go) e The Island hanno quindi sviluppato due storie diametralmente opposte sia nell’estetica della narrazione sia nello sviluppo della trama.
Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro
Nel collegio di Halisham, ambientato in un’Inghilterra degli anni Novanta (o, meglio, in una versione alternativa di quel decennio), dei ragazzi privi di famiglia crescono isolati dal mondo esterno. La loro educazione ha al centro lo sviluppo della creatività. È in questo collegio che inizia l’amicizia dei protagonisti: Kathy, Tommy e Ruth. I tre creano tra di loro un legame altalenante che si svilupperà attraverso il passaggio dal collegio ai cottages (delle fattorie), fino al raggiungimento della completa cognizione e interiorizzazione della realtà: i ragazzi sono dei “donatori”, cloni creati in laboratorio con lo scopo di avere organi disponibili per pazienti malati.
È solo con il dipanarsi della storia che scopriamo la ragione dell’importanza riservata all’estro (e quindi all’arte) nel collegio. Lo scopo era dimostrare l’umanità dei ragazzi al mondo esterno. Un obiettivo diventato superfluo con il fallimento di Halisham e di progetti affini. I “non clonati” non desideravano sapere da dove venivano gli organi che gli salvavano la vita. Un po’ come chi mangia carne preferendo ignorare l’esistenza dei mattatoi.
Il testo, che è al contempo una distopia, un’ucronia e un memoriale, attraversa le reminiscenze di Kathy, ormai giunta ai trentuno anni e che sta per finire la sua vita da assistente. Il ritmo della narrazione appare proprio quello di un ricordo sofferto. Parte con l’elusione della coscienza della morte e attraverso l’intreccio svela la scoperta della natura effimera della vita.
“Nei suoi romanzi di grande forza emotiva, (Ishiguro NdR) ha scoperto l’abisso sottostante al nostro illusorio senso di connessione con il mondo”
Il romanzo cammina sui cocci di uno specchio che in parte riflette la realtà attraverso nuove prospettive e in parte la distorce. Lo stile di Ishiguro è leggero e delicato, come a evitare di sfregiare la storia sui lati taglienti del vetro rotto. La trama apparentemente priva di turbamenti e lo stile piano riescono a far immergere il lettore nell’animo dei protagonisti. Navigando nella storia li osserviamo però perdere ogni legame affettivo e ogni speranza di futuro.
La scoperta della fine del proprio mondo non porta, tuttavia, a un’isteria evidente, ma piuttosto a un’angosciosa e tragica accettazione, che lascia l’osservatore con un groppo in gola.
The Island di Michael Bay
Un manipolo di esseri umani, sopravvissuti a una “grande contaminazione”, vive rinchiuso in una colonia isolata. Solo un luogo sulla Terra è rimasto intatto, almeno secondo quanto viene detto ai superstiti. Si tratta appunto dell’Isola, il posto a cui potranno accedere i vincitori della “lotteria” e chi metterà al mondo un figlio.
Lo svolgimento di questa parte iniziale è simile, per certi versi, a un piccolo capolavoro della letteratura fantascientifica: il racconto I difensori della Terra di Philip K. Dick (poi confluito nel romanzo La penultima verità dello stesso autore). In maniera similare, la situazione “in superficie” è solo una simulazione, un inganno.
Nel film, l’inganno viene man mano scoperto dal protagonista, Lincoln Six Echo (interpretato da un ottimo Ewan McGregor), grazie a una farfalla entrata in un condotto d’aria. È un primo atto, una presentazione dei personaggi e dell’ambiente, fino all’evento scatenante, che attinge a piene mani da tematiche della fantascienza sociale più interessante. Dal secondo atto, tuttavia, il film attinge a piene mani dal genere d’azione. La paranoia e la componente psicologica cedono il posto a quella adrenalinica che, in fondo, è la marca di Michael Bay.
Non lasciarmi e The Island a il confronto
Il film di Bay ha un’ottima premessa e molto materiale a disposizione: argomenti simili sono stati trattati da giganti della fantascienza, ma anche da film meno spettacolari ma egregi come Gattaca – La porta dell’universo. Fin dall’inizio, però, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un prodotto preconfezionato. Anche citando L’uomo che fuggì dal futuro di George Lucas, il regista lo fa con un manierismo cartonato da blockbuster. Al contrario, fin dalle sue premesse l’opera di Ishiguro delinea le peculiarità di un autore interessato a scavare l’animo umano, anche se con uno stile tutt’altro che pop.
La differenza tra Non lasciarmi e The Island, percepibile fin dalle premesse, sfocia in una diversità di genere nello svolgimento successivo. Le tematiche fantascientifiche restano in entrambe le opere, ma se Non lasciarmi prosegue nel suo percorso indagatorio dell’animo umano, The Island passa da un intimismo formale a una scia di inseguimenti e sparatorie in stile Bad Boys, con un intermezzo ironico con scambi “alla Marvel”:
«Che cos’è Dio?»
«Sai quando vuoi tantissimo una cosa, e allora chiudi gli occhi e esprimi quel desiderio? Dio è quello che ti ignora.»
In sintesi, il film sembra perdere del tutto di vista la profondità del tema iniziale, agognando l’esplosione dell’azione come un assetato che scava un pozzo alla ricerca di acqua sorgiva. Il romanzo invece, dopo aver trovato la “roccia madre”, resta in profondità, assaporando la pressione straziante del destino umano strappato a metà dall’istinto di sopravvivenza da un lato e dalla percezione della morte ineluttabile dall’altro. Come una talpa che continua a scavare verso l’alto pur sapendo che non c’è nessuna superficie a cui giungere.
Emilio Ilardo