Quella che leggiamo in Settembre 1972, edito da Anfora edizioni, è una storia che contiene parecchie altre storie, tanto per cominciare.
Il libro ci viene presentato, in seconda di copertina, come un romanzo in versi, intendendo naturalmente versi liberi, una sorta di prosa poetica. Partiamo allora da questo.
Il libro che abbiamo fra le mani ha una struttura frammentata: è composto da novantanove diapositive in cui il titolo è solo l’incipit del pensiero, del ricordo, del ragionamento, di seguito proposto.
Oggi ho dovuto aspettare
davanti a una porta, era una grigia e insignificante porta di quartiere dormitorio[…]
Questi frammenti sono grandi paragrafi unici. L’unico punto è quello alla fine. Novantanove punti in un intero libro. E il lessico – sì – è poetico nel senso di prosa ricercata, talvolta in ascesa verso l’aulico.
Il punto ora è: si tratta davvero di un romanzo? Se intendiamo una struttura romanzesca propriamente detta, no. Settembre 1972 è più una serie di micro-racconti che vanno a comporre una linea temporale in ordine sparso, come se ognuno servisse a fornire un’informazione al lettore.
Eppure, da questi frammenti esce fuori una storia a volte chiara a volte confusa – com’è normale, in fondo, in un rimescolo di ricordi e pensieri.
L’emozione cardine di Settembre 1972 è la malinconia. Sin dal principio ci accorgiamo che la storia d’amore narrata non è andata a buon fine e l’io del racconto non riesce a darsene pace.
I frammenti più forti – dal punto di vista emotivo – sono i ricordi propriamente detti. Quando l’io rievoca delle scene precise del suo passato con la donna, del loro amore, dei loro litigi, dell’incapacità di comprendersi e trovare punti d’incontro nonostante una vita passata vicendevolmente a ricorrersi.
Un po’ meno riusciti sono i pezzi di puri pensieri, soprattutto quando sviluppati in elenchi o ripetizioni o dicotomie:
E questo ormai va avanti
da mesi, io sono qui, tu sei là, io faccio questo, tu fai quello, io la vedo così, tu la vedi cosà, io dico questo, tu dici quello, io reputo giusto questo, tu reputi giusto quello, io ho bisogno di questo, tu hai bisogno di quello[…]
E nonostante questi alti e bassi il tono riesce sempre a essere profondo, a mostrare che la disperazione e l’inadeguatezza dell’io vincono la bellezza dei ricordi, e tutto il vissuto si ammanta così di una patina malinconica, che spegne la vivacità dei colori e dei sorrisi.
Non ci sono nomi in questo libro. C’è un io narrante e c’è un tu narratario. Siamo portati a credere che ci sia un solo io e un solo tu, che sia una storia unitaria – e la seconda di copertina, ancora, ci spinge verso questa direzione.
Se però possiamo essere abbastanza certi che l’io sia unico e comune ai novantanove pezzi, se non altro per lo stile, il linguaggio, il registro, il tono, lo stesso non si può dire per il tu, per quel personaggio evanescente di sesso femminile a cui è destinata la narrazione.
Questo perché l’insieme dei frammenti è confuso, non riesce a restituire – e nemmeno voleva farlo – una chiarezza temporale. Così ci si ritrova a leggere all’inizio del libro dei due che fanno sesso a scuola, poi – verso la fine – dei due che si conoscono in una situazione che pare di maggiore maturità.
Certo, le informazioni date sono frammentarie. Non sappiamo di che tipo di scuola si parli. Non sappiamo se invece quella situazione non è di maturità. Ma la pulce nell’orecchio viene fuori, e allora l’idea è che questi frammenti non narrino di una storia d’amore, ma di una vita d’amore, attraverso numerose compagne conosciute e mai dimenticate. E queste donne si mescolano nel tu anonimo e si rincorrono nei ricordi. E forse è proprio questo il punto.
Forse è proprio il caos dei ricordi di una vita non così giovane che viene messo in scena. E noi lo viviamo come viene, con quel po’ che riusciamo a decodificare, mentre quello che resta è frammentario, limpido in sé, nebuloso nel suo complesso.
Maurizio Vicedomini
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