Racconto: Sessanta secondi – Gianluca Volpe
Sentii la punta del mento battere contro il petto mentre mi gettavo di peso sullo sgabello. Malgrado la vista offuscata e la testa china, riuscii comunque a seguire con lo sguardo le tracce del sangue riversato sul pavimento, un sentiero irregolare che mi seguiva fino all’angolo, con lealtà di cane. Si sarebbe seccato presto, impregnando il telone di una macchia scura difficile da rimuovere; sapone e olio di gomito l’avrebbero sbiadita un poco, senza però mai celare del tutto l’inequivocabile impronta del mio passaggio. La ferita che mi pulsava sul sopracciglio sinistro rilasciava una copiosa emorragia; la sentivo colare a fiotti sugli zigomi – calda e umida – fino a raggiungere l’angolo della bocca. Alcune persistenti goccioline trovarono il sentiero giusto attraverso tutti gli spigoli del mio volto, rimanendo per un attimo sospese tra la mascella e il vuoto sotto di loro; finirono per annegare nel grigio dei miei pantaloncini, dopo una brevissima caduta. Osservavo le chiazze di sangue sul pavimento, quelle sui calzoncini insozzati, e quantificavo la mia inadeguatezza.
Avevo stampato sulla faccia l’avanzare inesorabile degli anni, duro e spietato. Lo sentivo nel respiro affannoso che scandiva i secondi; riuscivo a percepirlo nell’esplosività affaticata che accompagnava i movimenti di sempre; lo indovinavo nello sguardo di chi mi osservava. Compassione. Ma caspita, che coraggio ha!
Uno schiaffo mi arriva da destra, mi colpisce il viso emaciato. All’improvviso sono di nuovo nel presente. Guardo su e Roger mi sta urlando contro. Negli occhi spalancati la solita rabbia, ma poca incredulità. Ancora una sberla, ben assestata, senza aspettare che porgessi l’altra guancia. Mi si avvicina alla faccia e sento il calore del suo fiato in mezzo agli occhi; umide goccioline di saliva mi tempestano il naso malconcio. Tra il fragore diffuso e la mia poca lucidità ci metto qualche secondo prima di riuscire a concentrarmi su quello che dice. Metto a fuoco la vista annebbiata e lo guardo con chiarezza per la prima volta da quando mi sono seduto. Riesco a scorgere sul suo volto la stessa vecchiezza che sta colpendo il mio, ma una vecchiezza più velata, quasi elegante.
“Danny vecchio mio, ti stai facendo ammazzare”.
Una vecchiezza di chi i pugni in faccia li ha perlopiù visti tirare.
Coraggio. La litania del coraggio, obbligatoria e inevitabile, insistita in ogni momento. Ho dovuto ingurgitarla di forza, in questi ultimi anni. Mi sono visto affibbiare l’aggettivo di audace, cucire addosso la retorica del derelitto che lotta contro ogni ragionevolezza. L’uomo di sport, pulito e commendabile; uno che certe cose le farebbe in eterno, se il fisico fosse più clemente. Solo per la passione. Motivato dal coraggio.
Contando stasera gli incontri sono quarantatré, e la parola coraggio non mi è mai balenata nella mente. Neanche una volta ho cercato conforto negli allori che mi prometteva. Non ne ho mai avuto bisogno per scoprire cosa ci fosse al di là di quelle corde. Quindici anni fa, esattamente come oggi, ero già cullato dalla consapevolezza di cosa vi avrei trovato. Già rinfrancato dalla genuina gioia di tornare ad abbracciarla.
Tiro su col naso e cerco di parlare. Il paradenti mi dà fastidio e lo sputo via senza aspettare che vengano a togliermelo. Voglio giustificarmi ma sento il fiato corto, le labbra secche e screpolate non si muovono; respiro con la bocca aperta già dal quarto e allora decido di stare zitto. Roger si accovaccia davanti a me, e ora mi guarda negli occhi. Vuole trovare una risposta a questo disastro, leggermela in viso. Ricambio il suo sguardo con apatia. Sento che vorrebbe farmene arrivare un altro. Una botta in più non la sentirei nemmeno a questo punto. Dal pubblico arrivano urla e insulti, un frastuono senza tregua; ce l’hanno con me, hanno pagato un biglietto e mi vogliono più competitivo. Per un attimo mi volto a guardarli, un’onda indistinta di facce appena intravedibili nel buio. Sono tanti e rumorosi. Un pubblico da far bollire il sangue, tremare le gambe, grida di giovani e vecchi che si mischiano e accompagnano ogni colpo. Li vedo e sono lontanissimi. Mi giro di nuovo verso Roger.
Sono già stato qui. Ho già pittato il telone con il mio sangue rosso. Ho già buttato pantaloncini troppo sudici per essere lavati. Non è la prima volta che sento l’acido scorrere nei tessuti muscolari. Un montante di Marquez nel ’98 mi ha gonfiato l’occhio come un palloncino. Questa ferita sul sopracciglio non è dissimile da quella contro Cotto di sei anni fa; il grigio dei pantaloncini non è troppo diverso da quello dei calzoni nei primi incontri, un grigio nuvola e cemento.
Il gancio sul mento del secondo round mi ha fatto male, e il dolore sulla mandibola è di quelli vivi e laceranti. Non ricordo un incontro in cui non sia stato ferito seriamente, non ne ricordo uno in cui non abbia sopportato il dolore fino all’ultima campana. Nulla di eccezionale in questa serata. Tra mezzo minuto mi alzo e lo demolisco.
Adesso Roger mi sorride. Ha visto che ho cambiato faccia, ha indovinato nei miei occhi spiritati la voglia di buttare via questo sgabello e di fare del male. Steve mi tampona l’arcata sopraccigliare con il ghiaccio, allevia la fitta della ferita e mi rinfresca. Con un panno bagnato mi lava via il sangue che mi colava sul muso. Mi spalmano lestamente la vasellina sulle guance e sulla mascella mentre sento le solite raccomandazioni: colpiscilo al corpo, fagli abbassare la guardia; tieni ben alta la tua; resta in movimento e tienilo a distanza con il jab; taglia il ring e chiudilo alle corde; massacralo, quel figlio di puttana.
So già tutto. Neanche li ascolto mentre mi curano e mi consigliano. Quasi non li sento nemmeno mentre mi urlano in faccia con vigore e cattiveria. So già tutto. Mancano 20 secondi e ho un appuntamento importante. Riesco anche quasi a vederla, lì in mezzo al quadrato, che mi attende trepidante.
Dove diavolo ti eri cacciata, bella mia? Ho aspettato a lungo il tuo caldo abbraccio.
Nel 2002 Roy Jones mi ha spaccato il naso con un diretto di ferro. Il mio primo colpo al fegato l’ho preso da Taylor, nel mio terzo incontro da professionista, e mi ha lasciato in ginocchio a bestemmiare. La prima volta che ho pensato di non rialzarmi è stata quando Spence mi ha tatuato un gancio sulla testa al quinto round.
Vieni e avvolgimi, tienimi con te. Sei ancora lì dove ti ho sempre trovata.
Quando è scoccato il decimo round dell’incontro contro Kerlon, la sua faccia era ormai ridotta a una maschera di sangue.
La rabbia.
Roger mi disseta con la borraccia, mi bagna le labbra secche. Sento l’acqua fresca scendermi nella gola e a un tratto non ce la faccio più: voglio chiudere questo incontro, finire il povero coglione che ha pensato fosse assennato condividere un ring con me. Devo punirlo, renderlo un esempio, levare la compassione dalle lingue degli stupidi e cavare le parole benevolenti dalla bocca degli opinionisti, dei giornali. Devo irrorare il telo col suo inutile sangue, fratturargli ogni costola, terminargli la carriera. Ho bisogno di farlo.
Vieni qui, piccola mia. Posso ormai toccarti, portarti con me. Voglio essere cullato in eterno dalla tua comprensione, voglio deliziarmi della tua beltà.
Le bende mi stringono forte i polsi, proteggendomi i legamenti. Avverto il sentore di un crampo alla mano sinistra, ma lo scaccio via con nervosismo. Le mie braccia sono forti e in tensione, nonostante la muscolatura non sia più quella di qualche anno fa. Sono poggiate come macigni sulle mie gambe a riposo, atletiche e robuste. Le sento deboli come plastilina.
Dieci secondi ma potrei alzarmi già ora, voglio finirla al più presto. Roger mi prende per le spalle, mi scuote per motivarmi un’ultima volta. Guardo dritto davanti a me e capisco che è tutto pronto per proseguire. Sento la campana vibrare forte dietro le mie orecchie. E rimango seduto.
Gianluca Volpe