I Fiori estinti di Mattia Tarantino
Recensire un libro di poesie come Fiori estinti è un atto che richiede una sempre insufficiente delicatezza. Ancora di più se il poeta in questione è giovane e cavernoso come Mattia Tarantino.
Fiori estinti (Terre d’ulivi edizioni, 2019) è già il secondo libro del poeta classe 2001, che aveva esordito con Tra l’angelo e la sillaba nel 2017 con il medesimo editore. L’ampia raccolta, corredata da un bel commento di Giorgia Esposito, sembra costituirsi su basi tematiche e lessicali ricorrente e coerenti nella loro asprezza. Una coerenza tanto forte per la quale il libro potrebbe essere letto come un’unica lunga poesia.
Una poesia violenta
Una poesia senza dubbio violenta, che tuttavia non si nasconde nella sensibilità velata ma affronta con brutalità il giudizio del pubblico. Ed è in questa veemenza che si distingue, nel bene e nel male, la sua gioventù.
Nel male, quando la ferocia semantica delle parole fa da scudo alla vera messa a nudo dei sentimenti del poeta, e i suoi versi appaiono poco personali. Nella poesia è necessario parlare profondamente e sinceramente di se stessi, e solo di se stessi, per poter essere universali. Senza questa incondizionata schiettezza una poesia rischia di sembrare solo un esercizio di scrittura da ammirare. Scritto per il pubblico. Eppure per scrivere veramente per il pubblico bisogna scrivere per sé.
Nel bene, però, questa paura viene allontanata e la brutale violenza riesce a rimanere a galla con la morbidezza della sfera creando un fulcro di vera e pura poesia. Solo così possono essere definiti questi versi:
“stanotte prendo l’ago e cucio
i miei occhi agli occhi di mia madre,
prendo un piccolo coltello e svuoto
le mie ossa nelle ossa di mio padre.”.
Maturità profetica
C’è chi divide la poesia in tre categorie: sperimentale, lirica e performativa. Io credo si divida in due categorie: la poesia di cuore e la poesia di testa. Mattia Tarantino, nelle sue scelte lessicali altisonanti, trascina il lettore a faccia in giù in un atmosfera lugubre e spettrale, e lo fa sicuramente con la testa, una testa già matura, quasi esperta nel maneggiare il verso come una lama con cui affilare l’angoscia del lettore. Si esibisce come poeta/profeta che rivela le sue verità:
“Ecco, amate
ostinati la grazia, le impervie
vie della sorte e mai, mai
la sciagura dello stare.”.
Altra forza che gli va riconosciuta, è senz’altro da rintracciare nella difficile abilità di sfruttare la solita retorica poetica (cielo, stelle, grazia, astro, luce, angelo, ecc.) senza che venga percepita come tale. Questo tappeto di parole scorre nel sottofondo lasciando il primo piano a quelle effettivamente pregnanti, tutt’al più contribuiscono all’immaginario celeste in cui esercita questa arte divinatoria. Anche le figure del volo, gli uccelli, ritornano volentieri nel lungo racconto in versi nelle sembianze spesso di gazze e allodole. E rafforzano ancora di più quell’alone mitologico che Mattia Tarantino pianta nel linguaggio, nei tempi verbali, nella struttura delle poesie e nell’aspettativa , sempre sofferente, di una venuta ultraterrena:
“Verranno sette lingue per bruciarmi”;
“Verrà un giorno che la neve brucerà”.
Fiori estinti della madre
La venuta più attesa è senz’altro quella della madre, che ricorre in continuazione come sagoma esaltata. Si potrebbe quasi affermare che tutta la raccolta di poesia si compie come una continua invocazione alla madre:
“Legge di Ponente la discordia
verticale che fu taglio:
mia madre inghiotte cento fiori,
poi rimette dalle vene.”
Alternando liriche più lunghe come “Da Sud. Dieci canti d’argento e di riscossa” con altre molto brevi come il distico “I bimbi e i poeti”, la lettura di Fiori estinti fluisce vivace e varia fino al distico conclusivo che rimette tutto in discussione:
“Cerco un distico che chiuda
i miei versi o li sbaragli.”
Mattia Tarantino è quindi una voce da seguire con molta attenzione nel attuale panorama poetico italiano.
Come suggerirebbe Rilke a un giovane poeta: “e poi, in fondo, volevo solo consigliarla di seguire silenzioso e serio il suo sviluppo; non lo può turbare più violentemente che guardando all’esterno, e dall’esterno aspettando risposta a domande cui solo il sentimento suo più intimo, nella sua ora più quieta, può forse rispondere.”
Fabrizio Sani