Una delle questioni trattate nel romanzo Un artista del mondo effimero (Einaudi, 1994, scritto da Kazuo Ishiguro) dà l’occasione di indagare dello scarto perenne che esiste fra la percezione che abbiamo di noi stessi e l’immagine che gli altri hanno di noi.
Questo fenomeno viene analizzato in riferimento alla storia di Masuji Ono, un grande artista in pensione colto in un momento particolarmente delicato della propria esistenza, poiché si è rinchiuso in una sorta di limbo che lo estromette dal tempo – da diverse dimensioni del tempo.
Ambientata durante il periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra Mondiale, la narrazione è un incastro di ricordi formativi e vicende recenti che riguardano Masuji Ono e vengono raccontate da lui in prima persona. Il lettore perciò condivide la sua prospettiva parziale (inteso sia come limitata, sia come di parte). Durante l’attività artistica, attraverso la quale promuoveva e propagandava alcuni ideali del regime, Ono era considerato un Maestro di pittura ed era accerchiato da discepoli adoranti, ma in seguito alla conclusione della guerra decide di nascondere i quadri che gli avevano dato la gloria perché ritiene che possano comprometterlo e offendere i sopravvissuti.
La narrazione svela che la carriera di Ono ha preso avvio a partire dalla ribellione contro la maniera di dipingere del suo maestro: secondo Ono, coerentemente con l’atmosfera del periodo, era diventato uno spreco di energia cercare di afferrare con la pittura l’effimero, i passaggi in chiaroscuro degli attimi prima dell’alba, la cattura del momento in cui le espressioni facciali mutano, la qualità transitorie dell’animo umano.
Ono opponeva a ciò la concretezza, lo sguardo fiero e inflessibile dei giovani che guardano verso il futuro della Nazione, e per farlo decise di spezzare le catene dogmatiche del Maestro per abbracciare una nuova visione artistica. Era giunto per lui il momento di dipingere la risolutezza e la combattività, valori tanto cari alla politica governativa.
Ho imparato molte cose in questi anni. Ho imparato molto osservando il mondo del piacere, riconoscendone la fragile bellezza. Ma adesso sento che per me è venuto il momento di passare ad altro. Sono convinto che in tempi così inquieti come questi gli artisti devono imparare a dare importanza a qualcosa di meno elusivo, di meno irreale di queste cose piacevoli che spariscono con la luce del mattino. Non è necessario che gli artisti vivano sempre in un mondo decadente e chiuso. La mia coscienza mi dice che non posso rimanere per sempre un artista del monto fluttuante.
Proprio quel tipo di politica trascinerà il Giappone nel baratro della sconfitta e farà decidere Ono a nascondere le proprie opere.
Da quel momento il protagonista rimane ancorato nostalgicamente e luttuosamente al proprio trascorso momento di gloria – Kairos – ignorando un presente di cui non vuole ammettere l’esistenza.
L’effimero acquista per il protagonista un significato ulteriore, rispetto a quel tentativo di bloccare su tela l’indicibile come gli suggeriva il suo Maestro durante la gioventù: ora l’effimero diviene l’essenza del tempo che scorre, inarrestabile, cancellando o modificando il senso originario delle azioni umane.
Il tempo scorre, l’effimero manifesta una tenacia paradossale, e tre sono le opzioni che si presentano agli occhi di Ono per affrontare il cambiamento irreversibile che ha investito la società in ogni sua manifestazione (la forma della città, gli svaghi, la cultura popolare…)
Il mondo effimero può essere assecondato e introiettato: è il caso del giovane nipote, che giocando imita i gesti e le parole di un cowboy ignorando del tutto l’esistenza dei samurai.
Il mondo effimero può essere cancellato e demonizzato: il “ragazzo Hirayama”, un uomo svantaggiato per un ritardo mentale che ha vissuto senza istruzione sempre ai margini della società, si guadagnava in gioventù un pasto caldo cantando canzoni militari, ma durante il periodo di ricostruzione nessuno si fa scrupolo di imporgli il silenzio con la violenza.
Il mondo effimero può essere disconosciuto: il protagonista, pur fingendo di vivere in un eterno passato, interpreta come accusatori anche gli sguardi di chi non conosce la sua storia, o semplicemente non reputa degne di nota le azioni commesse da Ono. Il protagonista si sforza a non accettare il cambiamento ma al tempo stesso ne è talmente consapevole da sentirsi sempre sotto accusa.
L’episodio più straniante è quello in cui, durante una cena tra famigliari e amici, Ono si sente in dovere di fare pubblica ammenda dei propri errori: i presenti accolgono tale confessione con imbarazzo, stupore e compassione, reazioni che rivelano a Ono di aver sempre sopravvalutato le proprie responsabilità e di essersi accusato ingiustamente per colpe delle quali nessuno – a parte la propria coscienza – lo rimprovera.
La vera presa di coscienza rispetto allo scorrere inesorabile del tempo e alla capacità del tempo di stemperare nel suo corso tutto ciò che di negativo c’è stato avviene durante un dialogo con uno dei sopravvissuti all’onta della guerra, l’uomo che più di tutti spinse Ono ad abbracciare artisticamente la politica imperialista e fascista del governo di allora.
Ufficiali, funzionari, politici, uomini d’affari. Sono stati tutti incolpati per ciò che è accaduto al nostro paese. Ma, quanto a noi, Ono, il nostro contributo è stato sempre marginale. Oggi nessuno si cura di quello che fecero allora persone come lei e me. Ci guardano e vedono soltanto due vecchi con i loro bastoni. Noi siamo gli unici, oggi, a preoccuparci. Se lei e io guardiamo indietro alla nostra vita e constatiamo che ebbe delle macchie, siamo i soli, ora, a preoccuparcene.
Risolvendosi ad accettare di vivere il naturale scorrere del tempo, il protagonista riesce quindi a ridurre la naturale divergenza esistente tra la propria percezione di sé e la visione che gli altri hanno di lui.
Seduto sulla panchina, una delle poche superstiti all’ammodernamento della città, Ono può guardare in pieno volto l’effimero, riuscendo finalmente a percepire con sollievo ogni attimo di vita vissuta senza vergognarsi del passato, ma preservandone il ricordo con cura e potendo augurare il meglio a chi diventerà parte attiva della nazione.
Sorrisi fra me osservando dalla mia panchina quei giovani impiegati. […] Vedere come la nostra città è stata ricostruita, come le ferite si sono rapidamente rimarginate negli ultimi anni, mi riempie di autentica felicità. Il nostro paese, per quanti errori possano essere stati compiuti nel passato, ha ora una nuova possibilità di conseguire mete luminose. A noi non resta altro che augurare ogni bene ai giovani.
Luca Pegoraro
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