Racconto: Ultime volontà – Riccardo Meozzi
Mentre la carlinga si sconquassava e andava su e giù lei gli prese la mano e la strinse, ma non lo guardò; tenne gli occhi al finestrino, dove il nero aveva cancellato i colori del tramonto.
Lui non fece domande, solo resistette all’impulso di tirare via la mano e asciugarla sui jeans. Voleva pensare ad altro, per esempio all’elogio funebre che avrebbero scritto per loro se l’aereo fosse caduto, oppure al ricordo dei suoi compagni di scuola, delle lacrime che avrebbero versato guardando il suo banco vuoto. Gli restava però il dubbio su chi avrebbe scritto gli elogi: non avevano parenti prossimi, e l’unico che avrebbe potuto non sarebbe stato in grado.
Non avere paura, le disse.
Sì, sì. Lo so. Però voglio stare con gli occhi chiusi.
L’aereo continuò su quell’andazzo per un’altra decina di minuti. Sopra le loro teste, il segnale delle cinture brillava arancione e le luci supplementari erano spente. In giro non c’era neppure un’hostess.
Almeno dicessero che sta succedendo, fece lei.
Non sta succedendo nulla.
La sentì mugolare di disapprovazione, poi sospirare, e infine la vide voltarsi verso di lui. Non aveva mai visto somiglianze fra loro, ma si fidava del giudizio degli estranei: siete uguali, dicevano, tutto tua madre, non avevo mai visto un bambino tanto simile a un genitore. Così lui si fidava, diceva che sì, era proprio identico a lei, e non ci voleva un genio a capire che questo rendeva sua madre fiera e contenta.
È la prima volta che mi capita, disse lei, non avevo mai fatto un volo così brutto.
Ma come, non ti ricordi di quell’anno in Egitto? Avevo otto anni e l’aereo non faceva altro che tremare e allora papà…
No, fu un volo tranquillo.
Ma no.
Ti dico che fu tranquillissimo.
Sì, ma papà si alzò e andò a parlare con l’hostess.
Non me lo ricordo. E di sicuro tuo padre non ha mai fatto niente del genere.
Invece di ribattere gli balenò in testa l’elogio perfetto. Lo avrebbe scritto Michela, la sua amica d’infanzia. Nel discorso ci sarebbe stato un breve accenno ai suoi dati anagrafici e a quel che aveva combinato in soli sedici anni di vita: un campionato vinto con la squadra locale, la passione per i modellini da concorso che aveva coltivato per tutta l’infanzia e la pazienza che aveva dimostrato con i suoi genitori. Sì, Michela avrebbe dovuto scrivere proprio così: con i genitori. Il resto non valeva molto, anzi, sarebbe stato meglio se si fosse concentrata su quel singolo fatto dimenticando tutto il resto. Sarebbe stata una summa perfetta, e dentro quelle poche parole ci sarebbe stata la sua vita intera. Non era molto, ma era vero, e la verità era per lui una moneta preziosa.
A che pensi?, gli chiese lei.
A niente.
Si pensa sempre a qualcosa.
Ma io non stavo pensando a niente.
In quel momento fece sgusciare via la mano da quella di lei e se l’asciugò sui jeans; osservò con disgusto la traccia di umidità sul tessuto. Lei però tornò all’attacco, riprendendogli la mano e stringendola più forte di prima. Lui cercò di non muoversi e di pensare alla pipì che gli premeva sulla vescica. Si tenne concentrato più che poté, poi lei gli appoggiò la testa sulla spalla e gorgogliò qualcosa.
Che?
Ho detto che ti amo.
Ma non puoi dire che mi ami.
Come no.
No. Siamo parenti.
Solo parenti?, fece lei indispettita, solo parenti?
Mamma e figlio.
Già. E quindi posso dirti che ti amo.
La annusò: odorava di un profumo che non aveva mai sentito. Si chiese come mai non avesse addosso anche l’odore di suo marito; avrebbero dovuto essere perfettamente mescolati, e invece sentiva soltanto quello di lei. Gli venne voglia di scostarla e alzarsi, ma tutto ciò che fece fu scuotersi.
Se devi andare in bagno vai.
Non posso, lo vedi che ci sono le luci delle cinture?
E che ti importa, in questi casi meglio prendersi una sgridata che farsela addosso. Non sei più un bambino.
Il giorno che si era pisciato nelle mutande aveva avuto sette anni e suo padre si era scordato di lui. Era rimasto mano nella mano con la maestra sulla soglia della scuola patendo il freddo all’inguine. Non era arrivato nessuno fino all’ora successiva, quando sua madre era scesa dall’auto e rossa in volto aveva chiesto del marito. La maestra aveva detto che non si era fatto vedere. Ah, aveva ribattuto sua mamma, stasera mi sentirà forte e chiaro.
Dopo quella volta lui non si era più pisciato addosso, ma in altre occasioni aveva sentito sua madre giurare che suo padre avrebbe imparato come comportarsi. Era una bella litania, e lui li ascoltava litigare e portava pazienza, pazienza che magari avrebbero potuto usare a loro piacimento, ma che ignoravano: sua madre arringava, suo padre si eclissava. Negli anni poi erano diventati tutti e tre molto bravi nei loro ruoli, e tali erano andati avanti.
La prima volta che ho volato avevo trent’anni, disse la madre, ero convinta che questi bestioni cadessero giù alla prima folata fuori posto. Mi sembrava impossibile che riuscissero a stare in aria.
Guarda che mica ho paura.
No, tu sei forte, fece sfregandogli la guancia sulla spalla.
E allora perché lo dici?
Non lo so.
Davvero?
Lei non rispose più, e lui tornò a pensare all’elogio. Se l’avesse dovuto scrivere suo padre probabilmente non avrebbe avuto niente da dire. Lo immaginò chino sulla penisola in cucina, con in bocca il sigaro spento e fra le dita una penna che faceva battere sul tavolo ritmica e veloce. Avrebbe fissato il foglio per un po’, poi avrebbe buttato giù qualcosa e subito dopo lo avrebbe cancellato, poi avrebbe alzato gli occhi al soffitto spazientito, ma testardo sarebbe tornato con la testa china sulla carta e si sarebbe fatto venire un’emicrania. A quel punto avrebbe detto la sua famosa frase: ho mal di testa, non posso occuparmi anche di questo, e veloce sarebbe andato a chiudersi in camera, dove prima di stendersi a letto avrebbe tirato giù le tapparelle.
No, non era un compito per suo padre. Piuttosto sarebbe svanito – era bravo in questo – e ai funerali non sarebbe neppure venuto; se lui e sua madre non fossero più esistiti, allora lui non avrebbe più avuto motivi per restare nell’orizzonte dove avevano vissuto insieme.
Guarda, disse la madre, stiamo scendendo.
L’aereo si stava inclinando con la punta rivolta al suolo. Era una pendenza minuscola, quasi impercettibile, ma era abbastanza per quella notte.
Si sentì sollevato: forse aveva pensato che per davvero non ne sarebbero usciti vivi, che quello era l’ultimo momento insieme e che ci sarebbe stato un vero un funerale. Gli venne da sorridere.
Sei contento?
Un po’.
Del viaggio?
Sì, almeno, in parte.
E di che altro?
Sotto i loro piedi, oltre il metallo, l’aria era fredda ma serena: avevano tagliato le nuvole e la città apparve brillante. Sentivano l’aereo scendere più veloce e le ali tremare.
Lei sollevò la testa dalla sua spalla e lo guardò, ma lui cercò di non darle soddisfazione. Lei si riappoggiò, gli strinse la mano più forte di prima e tirò un lungo sospiro.
Il problema non è la partenza, disse piano lei, il problema è l’atterraggio.
Ah sì?
Non lo sapevi?
No, non l’avevo mai sentito dire.
Ma davvero?
Sì.
Sei proprio come tuo padre.
Cioè?
Lascia perdere.
Un clack e un lieve scossone segnalarono l’uscita delle ruote, e un rumore sordo provenne dagli alettoni. L’intero aereo trattenne il fiato, angosciato e trepidante di sentire la frenata, e nel mentre che anche lui stava chiudendo gli occhi e tutti facevano silenzio gli venne in mente che era giovedì e che il giorno dopo avrebbe avuto il primo allenamento al palazzetto.
Mamma, fece, chi ci viene a prendere?
Lei non rispose; aveva sciolto la stretta di mano senza che lui se ne accorgesse e stava impettita sul sedile con il mento puntato in alto e gli occhi chiusi.
Mamma? Mi hai sentito?
Sì.
Chi ci viene a prendere?
Nessuno, fece lei.
Nessuno?
Nessuno. Prendiamo un taxi, o alla peggio un bus.
L’aereo rullò, rimbalzò una volta forte e due piano, poi guadagnò aderenza e il rumore della frenata finalmente esplose.
Lui a quel punto cercò la mano di lei, ma era buio e non la trovò.
Riccardo Meozzi