Serialità limitata e commistione di generi: Cowboy Bebop

Chiunque abbia mai visto Cowboy Bebop conoscerà questa storia:

Era il 1998 quando andò in onda per la prima volta. Ma l’anime venne giudicato troppo violento, troppo inaspettato per quelli che erano i canoni dell’animazione dell’epoca, così fu salvato con una profonda amputazione. Solo 12 episodi (dei 26 complessivi) furono trasmessi, ai quali fu fatto seguire un epilogo costruito su misura.

Il Giappone non dovette però aspettare molto: quello stesso anno, poco dopo, un canale satellitare trasmise l’intero anime. Ed è lì che cominciò il successo di Cowboy Bebop.

Particolarità di un successo

Tanto per cominciare, Cowboy Bebop non è un anime convenzionale, o almeno non lo era all’epoca in cui fu prodotto. Aveva un contenuto per adulti, una forte commistione di generi e toni, una linea drammatica ben precisa, musiche che andavano al di là del semplice sottofondo e una comunicazione delle informazioni allo spettatore non lineare.

Era, potremmo dirlo così, un prodotto strano. L’idea è questa: anno 2070, da ormai mezzo secolo l’umanità vive in giro per il sistema solare – lo spettatore con un minimo di nozioni scientifiche dovrà sospendere la propria incredulità, poiché i pianeti del nostro sistema diventano abitabili e abitati. I diversi pianeti vengono trattati come se fossero città-mondo, quindi non c’è un vero attraversamento dei pianeti, da una città all’altra, ma solo viaggi fra mondi diversi.

In quest’ambientazione futuristica (ma con un che di retrò, per gli schermi, le tastiere, le pistole. Ricorda un mondo a metà fra Blade Runner e il Cyberpunk alla Johnny Mnemonic) si muove la nave Bebop, con la sua ciurma di cacciatori di taglie o Space cowboys, che vagano per il sistema alla ricerca di fuorilegge per guadagnarsi da vivere. Spike, il nostro protagonista un po’ Lupin, un po’ Bruce Lee e un po’ Kenshiro, è uno di questi cowboys.

Un passato da rivangare

Tutti i protagonisti – quattro, più un cane: Spike, Jet, Faye, Ed – vengono presentati in medias res. E lo scopo dei ventisei episodi è – in qualche modo – di fornirci il loro background. Scoprire perché quelle persone sono lì e come ci sono arrivate e, forse, dove potranno andare. È un lavoro fatto tutto sui personaggi, ed è qui la seconda grossa novità, dopo un’ambientazione fuori dalle righe: una profondità nella caratterizzazione dei personaggi atipica.

Il punto di svolta viene dato dal quinto episodio – o quinta session, come vengono chiamate -: Ballad of fallen angel. È qui che compare per la prima volta il passato di Spike e il suo avversario, Vicious. È qui che, in un crescendo musicale meraviglioso, dei frammenti di flashback ci anticipano qualcosa sul passato del cowboy: ci anticipano di una donna, di una ferita, di un rimpianto.

Se quello di Spike è – per forza di cose – il leitmotiv dell’anime, anche il passato degli altri bussa alla porta. Jet, con il suo braccio meccanico e i trascorsi da poliziotto; Faye, coperta di debiti e incapace di ricordare il proprio passato; Ed, genio sregolato, apparentemente sempre vissuta da sola.

Cowboy Bebop è la ricostruzione delle loro storie e, in un modo o in un altro, il loro compimento.

Serialità

Un altro elemento che ha caratterizzato l’impatto di questo prodotto sul pubblico è stato l’essere limitato a una sola stagione. Sebbene tutti gli anime si basino sulla tecnica dell’infilzamento, ovvero il concatenarsi di avventure singole e autoconclusive che – alla fine della vicenda – riportano tutto a una situazione di quiete, in alcuni casi questo fattore viene esagerato. Pensiamo agli anime di combattimento, gli shōnen, come Dragon ball, Saint seiya o One piece. Varie avventure, nemico da affrontare, probabile power-up e si torna in situazione di tranquillità fino al nemico seguente, che sarà più forte e richiederà un nuovo power-up per essere sconfitto.

Lo stesso principio compare anche in Cowboy Bebop, senza i potenziamenti, tramite i diversi fuorilegge che provano a catturare. Eppure la storia non si protrae per trecento o cinquecento episodi. Sono solo ventisei. In così poche sessions, ognuna, anche quelle che più sembrano riempitivi, serve a far provare allo spettatore empatia verso i personaggi, a mettere un altro tassello che esploderà negli ultimi tre episodi.

Limitare la serialità comporta una concentrazione maggiore di profondità e di caratterizzazione, che altrimenti sarebbero necessariamente diluiti. Ed è il caso – per citarne uno solo a titolo d’esempio – di anime usciti anche pochi anni dopo, come X-1999 delle Clamp. Un buon prodotto breve ha meno possibilità di avere punti di minimo rispetto a un prodotto – comunque di buona qualità – troppo lungo. È impossibile tenere alta la qualità per tutte le puntate o le saghe (per non parlare dell’inserimento dei cosiddetti filler per allungare ulteriormente il brodo).

Colonne sonore

Citazione dovuta, le musiche sono state scritte in concomitanza con la creazione dell’anime. Si è trattato, quindi, di un ispirarsi e condizionarsi a vicenda. Rain, nel già citato Ballads of fallen angels, Words that we couldn’t say in Jupiter Jazz (part 2) o Call me call me nella struggente scena finale di Hard Luck Woman.

La musica, poi, ha un’incidenza anche simbolica nei titoli. Il Bebop, naturalmente, ma anche i nomi delle sessions sono titoli di canzoni o riferimenti a generi musicali.

See you, space cowboy…

Non è mai facile definire i motivi del successo, anche quando l’opera analizzata è di sua natura un lavoro ben fatto. Ma in questo caso sono senz’altro l’insieme di fattori ad averne decretato un trionfo insperato. La commistione di generi fra fantascienza e western, le musiche, il dosaggio di comico e drammatico, la caratterizzazione dei personaggi, la serialità limitata e infine una storia che vale la pena di essere seguita. Una storia che è al contempo alla ricerca e la determinazione di ciò che è passeggero. Toccata e fuga, di pianeta in pianeta, a scoprire mondi e ritrovarvi sempre noi stessi, con un occhio al presente e uno, di colore diverso, che guarda al passato.

Maurizio Vicedomini

Maurizio Vicedomini è capoeditor per la Marotta&Cafiero editori. Ha acquistato diritti di pubblicazione in tutto il mondo ed è pioniere nello sviluppo di nuove forme di impaginazione libraria in Italia. Ha fondato la rivista culturale Grado Zero, sulle cui pagine sono apparsi racconti di grandi autori italiani e internazionali. È autore di libri di narrativa e critica letteraria. Collabora con la Scugnizzeria, la prima libreria di Scampia.

Lascia un commento

Torna su