Che cos’è davvero l’amour fou? E qual è l’amore che amiamo di più in un libro? L’amore a lieto fine o l’amour fou? Una risposta – forse – non esiste, come paradossalmente non esiste nemmeno se trasportiamo la questione dalle pagine di un libro agli attimi e alle aspettative che riempiono le nostre vite. Sembra assurdo, ma probabilmente è così. Una parte di noi è letteralmente e magneticamente attratta dall’amore tragico.
Sylvia di Leonard Michaels è un breve memoir nel quale l’autore ci racconta i suoi quattro anni vissuti insieme alla moglie Sylvia Bloch a New York. Siamo nella confusione febbricitante del Greenwich Village. È l’inizio degli anni ’60. Come ogni coppia che deve nascere, i due giovani protagonisti improvvisamente s’incontrano, si conoscono, s’innamorano e intrecciano così i fili delle loro vite in modo inconsapevole ma esiziale. Sarà l’inizio di una fine già scritta.
In un susseguirsi di litigi, incomprensioni, gesti plateali e riappacificazioni, Leonard e Sylvia si perdono nel labirinto dell’amore tragico, soffocante, che non lascia spazio agli altri e che nemmeno lascia spazio alla vita al di fuori di esso. Lavoro, amici, ambizioni. Tutto perde significato. Per Leonard esiste solo il dolore di Sylvia, per Sylvia esiste solo la spalla di Leonard.
L’amour fou è dunque un amore che diventa malattia, male di vivere. Un amore estremo, una passione che non conosce limiti. Un legame che mette in allarme gli altri – famiglia, amici, conoscenti – senza riuscire mai ad allarmare gli amanti. È un amore che isola la coppia nella gioia del proprio tormento. Nessuno sembra poter intervenire, allontanare gli innamorati. Perché l’amour fou è esattamente quello – e soltanto quello – che gli amanti desiderano nel profondo.
Cos’altro non è l’amore se non ciò che avviene dopo un’irruzione casuale ma sconvolgente nella nostra vita? Dice il filosofo Alain Badiou: “L’assoluta casualità di un incontro assume l’aspetto del destino. La dichiarazione d’amore segna la transizione tra caso e fato, ed è per questo che è così rischiosa”. Ma gli amanti amano il rischio e traggono emozioni da esso, dall’idea dell’ineluttabilità. Non amano – cioé – quello che ai lori occhi appare semplicemente come la banalità della convenienza.
Eppure esiste anche l’amore a lieto fine, l’amore che sconfigge questa paura. O – per meglio dire – che sconfigge il caso. “L’amore è la casualità di un incontro che viene sconfitta giorno dopo giorno dall’invenzione di qualcosa che durerà” prosegue Badiou. Ma ecco che per alcuni di noi l’emozione in questo modo di colpo si spegne. La semeiotica della relazione sentimentale perde significato e la coppia si ritrova a fare i conti con la scelta, non più con il destino. E la scelta è razionale, meditata, in ultima analisi poco emozionante. Ma da dove nasce questa narrazione dell’amore? Questa dicotomia?
Fin dall’antichità – lo sappiano bene – l’amore ci è stato descritto come malattia, come qualcosa che ci induce alla disperazione. Nel romanzo di Micheals, Sylvia appare infatti piena di fascino, ci ammalia con la sua sofferenza, ci incuriosisce con le sue stravaganze. “Creature miserabili, tutte, e tantopiù seducenti quanto più miserabili”, scriveva Gesualdo Bufalino. Ed è proprio così per Leonard, che non è tragicamente capace di dissociare la voluttà dal disprezzo, le crudeltà e le miserie di Sylvia dall’ossessione dell’amore che prova per lei.
È l’amore di Racine. L’amore come una specie di malattia, appunto, un sentimento devastante, ineluttabile, intrecciato con i tormenti della gelosia più abbietta, per il quale anche una persona spregevole può essere amata. Gli uomini appaiono incapaci di volontà, trascinati dalle situazioni, travolti da un conflitto interiore inestirpabile. La passione assume le sembienze di una fatalità che disegna per i propri scopi sconosciuti e in ultima analisi privi di senso i destini degli uomini.
Ma la verità è che questo tipo di amore porta in un primo momento all’esaltazione, ma ci conduce inevitabilmente al dolore. E allora perché non desiderare l’amore di Corneille? Quello nel quale il drammaturgo afferma: “Ti amo perchè te lo meriti”? Un amore nel quale gli amanti sono “artefici del proprio destino” e non vittime degli inganni e delle astuzie del tormento amoroso? Questo rimane il mistero di noi uomini.
Mi ricordavo del linguaggio asciutto, preciso, privo di abbellimenti eppure in grado di restituire alla perfezione ogni sfumatura delle emozioni umane. Nella sua concretezza, l’autore è in grado di mostrarci le nostre le debolezze con maestria e sincerità. Senza giri di parole, senza accadimenti strabilianti. Eppure la sostanza della storia è tutta lì, davanti ai nostri occhi. Michaels non ci nasconde mai la sua carne e il suo sangue. E in questo modo riesce davvero a farci piangere.
Le (poche) pagine scorrono via veloci. Non ci sono punti morti, momenti trascurabili, divagazioni inutili. Michaels va dritto al cuore del problema: non si sceglie di amare una persona perché è giusto e bello. La si ama e basta. Quello che si può fare – forse – è allora interrompere la trama del destino prima di imboccare quella terribile via senza uscita. Prima – cioé – della nascita dell’incontro. Dello sguardo reciproco con il quale gli amanti si sfiorano e si dicono: accetto la sfida. Sopravviveranno? Purtroppo non tutti. Ma – soltanto nei libri – forse a noi va anche bene così. Perché il fascino dell’amour fou non muore mai. Anche se è l’unico a riuscirci.
Se lo avete dimenticato nel cassetto, prendetelo in mano e apritelo alla prima pagina.
Anna Pietroboni
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