Usciva lo scorso anno per minimum fax un piccolo libricino bianco con il nome di un famoso scrittore americano in rosa, George Saunders, e sotto una frase che cattura l’attenzione: l’egoismo è inutile.
Accostare un aggettivo negativo a un sostantivo negativo sembra semplice: lo sanno tutti che l’egoismo è una cosa negativa. Ma inutile no, non lascia indifferenti, perché l’egoismo è certamente negativo (parlando ovviamente in maniera sommaria e senza soffermarci ad analizzarlo dettagliatamente), ma è così diffuso proprio perché appare utile. No, inutile non si direbbe proprio.
Questo volume, curato da Christian Raimo e tradotto da Cristiana Mennella, raccoglie un discorso tenuto davanti ai laureandi della Syracuse University l’11 Maggio 2013, un estratto molto noto di un saggio uscito per il medesimo editore (Il megafono spento. Cronache da un mondo troppo rumoroso, 2009) e un intervista a Saunders.
La vita, così com’è congeniata, ce lo può rendere difficile. Io sono il centro del mondo e senza di me il mondo crolla. Io sono una divinità immortale, non conoscerò mai la mia morte ma la tua, la tua e la tua. Certo, ci sono anche molte cose che mi fanno sentire inutile, ininfluente: se a me qualche logica di questo mondo non sta bene, quella logica non cambia. Se un astronauta scatta una foto della terra non mi vedo, nemmeno se scattano una foto dell’Italia e nemmeno se scattano una foto della mia città. Sono speciale ma non vengo identificato come tale, nessuna segnaletica stradale indica la mia casa come luogo di culto.
Di queste convinzioni siamo tutti vittime e perciò, congenitamente, gli uni contro gli altri. Il mondo è un territorio pieno di avversari, fin da quando è nato mio fratello minore e un po’ della mia unicità è sfumata; fin dalla prima preghiera che non è stata ascoltata; fin dalla prima volta in cui mia nonna si è scordata di sostituire le lucciole nel barattolo con le monetine e la mattina le ho viste brune e screpolate, con le ali piegate, una sopra all’altra morte di soffocamento. Va da sé che quando il nuovo compagno entra in classe con aria beffarda gli tolgo la sedia, che quando una macchina mi rallenta perché il conducente è al telefono gli suono il clacson e dico: “coglione”, che quando una preda compare davanti al mirino premo il grilletto.
Saunders dice sostanzialmente che quando ci guarderemo indietro ciò di cui ci pentiremo sarà di quando non siamo stati gentili. È condivisibile, ma è un altro movente egoistico. Allora forse c’è un passo precedente, un passo unico e fondamentale: riconoscersi egoisti e combattersi. Essersi avversari. Spendersi contro se stessi piuttosto che contro gli altri.
Il saggio l’uomo col megafono, del 2009, è ormai una metafora classica e sempre attuale per decodificare i media americani ma anche europei. Ma anche metafora della situazione politica italiana. Abbiamo al potere un uomo col megafono che parla a volume altissimo e si dimena per rafforzarsi al centro dell’attenzione. La sua prepotenza è tale che tutti i suoi colleghi smetteranno di avere la loro funzione e si limiteranno a reagire a l’uomo col megafono.
L’uomo col megafono, però, è soprattutto un saggio sulla povertà della narrazione mediatica in cui siamo intrappolati. Le logiche moderne del sistema mediatico impongono un’informazione che sia intrattenimento. Un’informazione distratta e veloce che arriva a un ascoltatore distratto e veloce. Un’informazione che ha il compito di avvalorare se stessa come informazione centrale con sensazionalismi irrilevanti: “alle cinque, altri aggiornamenti sulla macchia! Avete mai provocato una macchia? Quale colore nasconde meglio una macchia secondo voi? Ascoltate le previsioni degli esperti sulle vostre risposte!” Più uno scandalo avrà bisogno di essere sostenuto come tale, più in basso si scenderà.
“Le rappresentazioni del mondo non sono mai il mondo vero e proprio. Abbassiamo il volume del Megafono e insistiamo affinché diffonda messaggi quanto più precisi, intelligenti e umani.”
L’ultima parte è un intervista per questo volume proprio sui temi affrontati: istruzione, gentilezza, politica, informazione, ma anche scrittura, morale e spiritualità. Delle sue risposte a questi argomenti una mi ha colpito più di altre. Ne riporto un estratto: “Sono convinto che uno dei modi in cui si realizza il progresso sia questo: i privilegiati scoprono i vantaggi di una certa cosa, cominciano a introdurla nella loro vita, a insegnarla, a scriverne, e così via, fino a che non entra a far parte del pensiero e della vita dei meno privilegiati. […] È così che funziona il mondo. Quindi se una persona è stata più fortunata delle altre e, usando il tempo e la libertà che ciò le mette a disposizione, scopre qualcosa che contribuisce a renderla più completa e più serena, allora parte della sua missione dovrebbe essere portare fino in fondo quel percorso: perfezionarsi in quella cosa […] e così facendo diventare un esempio, un modello, e contribuire a diffonderla. Penso che sia così che la specie progredisce, in concreto, e che questo sia, in sé, un atto di generosità.”
Come prima Saunders mostra un occhio disilluso sul mondo, quello che dice è che le disuguaglianze esistono ed esisteranno sempre. Lo dice usando una formula atroce, superba e volgare, da cattivo dei supereroi: “è così che funziona il mondo”. È vero che il cambiamento più importante è quello culturale, ma innescare un cambiamento culturale vuol dire anche non accettare le disparità come ineluttabili e fare un gesto, per quanto piccolo, per ridurle.
È vero anche che il caso gioca con gli spermatozoi e spariglia le sorti, così che alla nascita le nostre possibilità sono diseguali. Proprio per questo è necessario non identificare questo gesto come atto di generosità, ma semplicemente come ciò che è giusto. La parola che Saunders usa, generosità, rimanda sgradevolmente all’idea che sia il privilegiato a fare un favore agli altri, mentre sono gli altri che hanno fatto un favore a lui. E lui ad avere un debito.
Fabrizio Sani
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