In quest’epoca, può lasciare un po’ sorpresi parlare di Bolaño come di un autore dimenticato.
In effetti, lo scrittore cileno gode di un’immensa fama postuma. Potremmo dire che si tratti di un autore di culto. À la mode. Ma chissà se lui avrebbe apprezzato, così schivo, ritirato, perfino per certi aspetti così borghese. Certo, Bolaño amava le sue opere ed era consapevole del loro valore, ma probabilmente non avrebbe aspirato a ritrovarsi su qualche rivista patinata, cristallizzato in una vecchia fotografia nella quale compare con i capelli arruffati e la sigaretta perennemente in mano, paragonato agli autori ribelli e maledetti – per motivi commericiali, di lancio in un certo tipo di mercato mainstream – o in qualche operazione di critica letteraria più sofisticata ai post-modernisti. Bolaño non c’entra affatto con loro. Bolaño è un misto di fantasia, rigore, terrore, timidezza. E di voli sconfinati verso il molto lontano che dimora ben nascosto dentro di noi
“Il Terzo Reich” fa – però – un po’ eccezione. Si tratta, infatti, di un romanzo per certi versi (e a torto) considerato minore. Un’opera completata ma mai data alle stampe e forse per questo considerata non veramente finita o degna di essere attestata tra le sue produzioni migliori. Perché Bolaño ha deciso di non renderla pubblica, si chiedono i critici? Cosa non lo convinceva? Eppure noi lo sappiamo, o almeno lo immaginiamo. È il poco tempo che gli rimane davanti che probabilmente lo ha costretto a fare delle scelte e a canalizzare la sua dedizione alla mastodontica opera 2666. Il poco tempo che gli rimane da vivere, intendo. Ed è per questo che è bello pensare che se avesse avuto qualche mese in più avrebbe riletto “Il Terzo Reich”, forse appuntato qualche piccola nota, modificato impercettibilmente qualche passaggio, e poi l’avrebbe dato alle stampe. Perché “Il Terzo Reich” è perfetto così com’è.
Il romanzo racconta in prima persona la storia di Udo Berger, giovane campione di un gioco da tavolo chiamato Terzo Reich che si ispira come si può ben immaginare agli scenari militari della seconda guerra mondiale. Durante un soggiorno in Spagna che si prolunga sul finire dell’estate in un sottile e antitetico rimando alla decadenza veneziana di Thomas Mann, Udo ci immerge nei propri pensieri e nelle proprie vicende. Il testo è febbrile ma regolare, asciutto. Febbrile nel pensiero ma asciutto nelle descrizioni, come se le poche e misurate parole potessero anestetizzare l’esuberante flusso di pensieri magici del protagonista, ma ovviamente dando l’effetto contrario. Una sensazione – cioé – di straniamento lucido, di terrore preciso. Non è – cioé – la decadenza di Gustav von Aschenbach. Ma è il terrore di Kurtz.
Il lettore fluttua in modo (volontariamente) poco comprensibile tra le immaginazioni di Udo intorno alle sue bizzare strategie militari in previsione della prossima partita che lo aspetta e le concretezze delle serate estive trascorse nei club a ubriacarsi con archetipici personaggi del luogo, chiamati per esempio evocativamente il Lupo e l’Angello. Ma non è tutto. Il lettore viene anche immerso nelle lugubri e ipocondriache elucubrazioni dalle quali Udo si lascia sopraffare quando si ritrova solo nella sua stanza e che risiedono nelle pieghe di quello stesso albergo che Udo ricorda con fascino quando era bambino.
L‘inquietudine si insinua in modo subdolo ma penetrante nelle sottotrame del racconto, e pagina dopo pagina prende spazio fino a soffocarci, ma sottilmente. Come un film di David Lynch ma con una fantasia meno macabra e più metafisica. Più malvagia e meno seducente. Pasion helada. Una passione di ghiaccio.
Chi è – dunque – il vero protagonista della storia? La vacanza al mare come distacco dalla vita ordinaria e occasione per l’esplorazione di sé e di un universo onirico parallelo? Oppure il gioco militare, che con i suoi intrighi e le sue strategie si insinua con prepotenza nei pensieri e nelle vicende reali di Udo? Ma soprattutto, chi è il vero avversario di Udo? Il Bruciato – irascibile noleggiatore di pedalò dal volto sfregiato a causa di un incendio, che dorme in spiaggia e che più volte minaccia Udo, e che si ritroverà a giocare con lui la partita decisiva? O la signora Else – glaciale proprietaria dell’albergo, da cui Udo è attratto ma che sottilmente lo respinge e lo fa sentire per certi versi inadeguato? O ancora l’estate che sta finendo, con le sue promesse mancate, le sue volgarità, il suo senso di vuoto, la sua violenza ignorante incarnata da il Lupo e l’Agnello? Oppure in fin dei conti Udo stesso, i suoi pensieri, le sue difficoltà a spezzare il filo nascosto che collega la sua immaginazione alla realtà, la sua partita a Terzo Reich e la sua intera esistenza?
È un romanzo labirintico, nei meandri del quale vediamo i protangonisti di volta in volta perdersi o combattere tra loro. Grazie a una scrittura sorvegliata, perfetta come un ingranaggio ma irreale come l’effetto di una droga, Bolaño ci trascina nel suo mondo di fantasia, producendo con i suoi salti logici e i suoi confini segreti un potente effetto di straniamento e di terrore, seppur controllato. Quale personaggio è reale e quale no? Quale vicenda è un’invenzione della torbida mente di Udo e quale è realmente accaduta? Attraverso una lingua piena di ritmo, fluida e fintamente anonima, il lettore è costretto a perdersi nei nella trama dello scrittore cileno fino a non volerne uscire più.
Se l’avete dimenticato, prendetelo in mano e apritelo alla prima pagina.
Anna Pietroboni
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