Burning e l’inesplicabile mistero dell’esistenza
Haruki Murakami è uno degli autori più misteriosi e surreali della letteratura contemporanea. Le sue storie conturbano e disorientano e alcune delle sue opere sono divenute trasposizioni cinematografiche – più o meno fortunate. L’ultima di queste, Burning – L’amore brucia, in concorso al Festival di Cannes 2018 e in corsa per gli Oscar 2019 come Miglior film straniero, è probabilmente la più riuscita. È il regista sudcoreano Lee Chang-dong ad aver adattato al grande schermo, a otto anni dall’acclamato Poetry, il racconto breve dello scrittore giapponese “Granai incendiati”, contenuto nella raccolta del 1993 “L’elefante scomparso e altri racconti”, che a sua volta trae ispirazione dal racconto di William Faulkner del 1939, intitolato proprio Barn Burning.
Dalle pagine alla pellicola
Burning è un mystery thriller che ricalca solo in parte la storia originale. Lee Chang-dong ha estrapolato solo alcuni degli elementi narrativi dal racconto di Murakami, moltiplicando ed esasperando gli enigmi e complicando gli intrecci psicologici tra i personaggi, in un vero e proprio labirinto metafisico nel quale è impossibile non smarrirsi.
La storia gira intorno alla relazione tra tre ragazzi: il giovane Jong-su, protagonista passivo e debole con aspirazioni letterarie, la seducente e fragile Hae-mi, una dimenticata amica d’infanzia alla disperata ricerca del senso della vita, e il fascinoso Ben (Steven Yeun, noto per il ruolo di Glenn in The Walking Dead), un “Grande Gatsby coreano” dalla dubbia moralità.
Lo strano triangolo psicologico-sentimentale si svilupperà in un crescendo instabile di misteri incomprensibili in cui Jong-su cercherà affannosamente di districarsi. La rivelazione che Ben gli farà riguardo la sua passione piromane per le serre abbandonate che lo spingerà presto a bruciarne una proprio nelle vicinanze della sua abitazione, sarà la vera e propria scintilla che accenderà in lui un’ossessione corrosiva e lo condurrà ad una discesa negli inferi della sua coscienza.
Una generazione “in fiamme”
In fondo a bruciare davvero in Burning non sono le serre – e mai le vedremo bruciare durante tutta la durata del film, se non in un sogno di Jong-su – e nemmeno l’amore, ma la rabbia, che consuma dall’interno il protagonista, scomoda eredità di un padre rinchiuso in carcere a causa delle sue assurde esplosioni di aggressività ed eco di quel padre piromane col quale a sua volta il protagonista del racconto di Faulkner è costretto a fare i conti.
Una rabbia individualizzata, rimescolata a solitudine e alienazione, che ha bisogno di venire fuori, freudianamente simboleggiata nella sequenza in cui Jong-su orina mentre alla tv passano le immagini del presidente americano Donald Trump – il volto della politica irresponsabile che quella rabbia la istituzionalizza e la rende collettiva.
D’altronde durante la conferenza stampa di presentazione nell’ambito della 71ª edizione del Festival di Cannes, Lee Chang-dong ha dichiarato:
La rabbia e la violenza sono fenomeni universali, indipendenti dalla religione o dalla nazionalità. Tutti provano questi due sentimenti, in particolare i giovani di adesso che non conoscono neanche la risposta del perché sono arrabbiati. Un tempo la risposta si conosceva, ora loro non sanno neanche cosa fare per vivere. Non sanno dove dirigere la loro rabbia perché non ne conoscono la provenienza.
Un puzzle complicato
Burning, quindi, è un ambiguo riflesso del tempo presente, spazialmente collocato in un paese ancora segnato dalle cicatrici del passato, incapace di affrontare con lucidità le sfide del progresso e le contraddizioni tra le diverse anime della società, in precario equilibrio tra le resistenze del mondo rurale e le promesse di benessere offerte dal modello economico occidentale. Da questo punto di vista il regista ha saputo tessere sapientemente una tela narrativa – a metà strada tra Hitchcock e Polanski – che avviluppa lo spettatore, lasciandolo incollato allo schermo, solo con i suoi angoscianti interrogativi.
Ogni ancoraggio logico-identitario sembra gradualmente dissolversi, fino a rendere indistinguibile il reale dall’irreale. Alla fine tutto ciò che è stato visto, ma soprattutto ciò che non è stato visto, deve essere necessariamente messo in discussione: il gatto, il pozzo, le serre incendiate, persino la madre di Jong-su, figura così evanescente da sembrare uno spettro emerso dalle brume di un passato confuso. Probabilmente andrebbe messa in discussione la storia stessa, poiché il dubbio che sia tutto frutto dell’immaginazione del protagonista, in cerca di una storia per il suo romanzo – come sembra suggerire l’inquadratura che lo mostra intento a scrivere di spalle nell’appartamento di Hae-mi – rimane.
Dopotutto Jong-su ammette di non sapere ancora che tipo di romanzo dover scrivere perché per lui “il mondo è un mistero”. Forse allora l’intera storia non è altro che un abile esercizio di pantomima, come quello in cui si esercita Hae-mi fingendo di sbucciare un mandarino immaginario. In fondo basta non sforzarsi di immaginare che quella cosa ci sia. Bisogna solo smettere di pensare che non ci sia.
Valerio Ferrara