Ritratto d’artista desafinado
Chi, come me, ha avuto in sorte di crescere in una casa di appassionati di musica brasiliana e, in una fase successiva della propria vita, ha tentato (con scarso successo) di diventare un tenorsassofonista copiando senza ritegno i fraseggi di Stan Getz su Getz/Gilberto, sa bene che João Gilberto Prado Pereira de Oliveira rientra in quel novero di ascolti obbligati che formano, in maniera direi irreversibile, una coscienza musicale e una precisa visione del Brasile e delle sue sonorità. Il cantante di Juazeiro se n’è andato proprio quest’anno, a 88 anni, ma da qualche anno non calcava più i palchi per problemi di salute; ciò nonostante, la sua scomparsa ha suscitato grande emozione nella comunità dei musicisti, che hanno salutato in lui un ispiratore, un punto di riferimento, un maestro.
Un’agile guida alla produzione di João Gilberto è il recente «ritratto d’artista» stilato da Francesco Bove per i tipi di Arcana, che combina biografia e storia della musica brasiliana, visione d’insieme di un percorso artistico e dettagliate informazioni su singole sessioni in studio o concerti. Eppure, questo ritratto è definito «impossibile». Affettazione di modestia eccessiva, quella perché in realtà il libro di Bove consente tanto al neofita quanto al navigato estimatore della bossa nova di orientarsi alla perfezione nell’universo-Gilberto. Mancano forse approfondimenti di carattere tecnico e armonico, per i quali sarà doveroso attendere più attrezzati studi musicologici; ma la grande leggibilità della scrittura e la cura con cui l’autore raccoglie e sistematizza i dati a sua disposizione rende João Gilberto un ottimo “invito all’ascolto” do Mito.
Un pioniere all’ombra del tamarindo
Bove ci accompagna lungo la lenta maturazione della bossa nova, forse il più ossimorico tra i generi con il suo essere a un tempo sofisticato e popolare, colto e di grande successo. Se l’incisione, nel 1958, di Cançao do amor demais di Elizeth Cardoso rappresenta un po’ il suo atto di nascita ufficiale, le radici vanno rintracciate nelle esperienze musicali del primo Novecento brasiliano, sintetizzate efficacemente in un breve ma utilissimo capitolo introduttivo. Le voci e i ritmi del morro, l’esplosione della samba, il successo della samba-cançao, la questione tutt’altro che pacifica della “brasilianità” da costruire e raffinare – tutte tappe di un percorso evolutivo che trova infine nella bossa il suo approdo più fortunato, di certo quello che proietta il Brasile nel panorama dei grandi territori artistici.
Si dice che, mentre l’intellettualità del Paese discuteva della musica che avrebbe dovuto rappresentare l’identità brasiliana, un ragazzino chiamato Joãozinho passasse le sue giornate a suonare la chitarra sotto un tamarindo. Quelle lunghe session d’allenamento sarebbero state la prima fase di un percorso che avrebbe portato alla “forma” gilbertiana della bossa nova, poi consacrata in un disco capitale come Chega de saudade. Il flauto che introduce la traccia eponima è con ogni probabilità uno degli attacchi più celebri della musica del Novecento: Bove parte proprio da quella registrazione per illustrare come la bossa di Gilberto si plasmi sulle composizioni di Jobim e Vinícius de Moraes (altro gigante del quale sarebbe forse opportuno cominciare a pensare a un’edizione completa delle poesie, qui in Italia leggibili solo per campioni grazie soprattutto alle traduzioni di Amina Di Munno), si affini col procedere degli album e delle esperienze internazionali, per trovare infine sbocchi imprevisti nelle combinazioni con altri generi – e in questo senso sono davvero interessanti le pagine dedicate alla collaborazione col già citato Stan Getz e in generale al rapporto col mondo della musica jazz, che tanto ha dato alla bossa e dalla bossa tanto ha ricevuto (chi sta canticchiando il tema di Blue Bossa?).
La batida come esperienza
Non era un tipo facile, Joãozinho: generazioni di estimatori hanno dovuto imparare a conoscere la sua maniacale attenzione per la strumentazione sul palco, i ritardi anche enormi dovuti all’assenza dell’adeguata strumentazione fonica, o le improvvise uscite di scena per una mancanza di feeling col pubblico. Vezzi da star, potrebbe insinuare qualcuno; ma va anche detto che dietro la cura certosina pretesa da Gilberto c’era una dimensione sonora unica nel suo genere, che l’artista intendeva preservare da contaminazioni o disturbi.
La cocciutaggine con cui pretendeva particolari tipi di microfoni, come anche la freddezza riservata a platee dinanzi alle quali non avvertiva una compartecipazione emotiva, si spiegano alla luce di una volontà mai disattesa di restituire un’esperienza musicale totalizzante, in cui la batida, il ritmo che João diceva di aver tratto «dal movimento delle anche delle lavandaie» (p. 47), scandisce le parole avvolgenti e apparentemente fuori tempo cantate con la sussurrata baixinha. Di questo aspetto addirittura “fisico” della bossa nova dà ampio conto Bove, che non lesina dettagli nei suggestivi resoconti delle grandi performance nella madrepatria brasiliana come in altre località che non hanno mancato di dimostrare affetto e stima per Gilberto: si pensi alla trionfale tournée in Giappone, o alle tante occasioni di incontro musicale col pubblico italiano, raccontate in un apposito capitolo di chiusura.
João Gilberto non c’è più, ma la sua discografia a base di voz e violão resta. La si può snobbare, preferendo altre sonorità più immediatamente digeribili di questa musica così complessa nella sua semplicità; o si può provare a (ri)ascoltarla, con l’aiuto di uno strumento come il volume di Francesco Bove, per penetrare nella singolare bellezza di un genio «che ha saputo superare la definizione stessa di Bossa Nova per creare una sonorità tutta sua» (p. 26).
Giuseppe Andrea Liberti