The Great Hack: la propaganda nell’era delle cleptocrazie digitali

A quanti di noi, dopo aver visto una pubblicità su Internet, è capitato di convincersi che il microfono del nostro telefono ascoltasse le nostre conversazioni? Per quanto possa risultare difficile pensarla in maniera differente, la realtà è che il nostro comportamento è stato accuratamente analizzato, per cui le pubblicità che troviamo incredibilmente pertinenti ai nostri gusti – e alle nostre recenti ricerche sul web – e che ci fanno credere di essere spiati, sono semplicemente la dimostrazione che un algoritmo sta funzionando. È David Carroll, docente della Parsons School of Design, a chiarirlo nell’apertura del documentario “The Great Hack – Privacy violata”, rilasciato da Netflix questa estate.

I protagonisti

I registi Karim Amer e Jehane Noujaim hanno raccolto le testimonianze e messo in fila le vicende che hanno portato a uno dei più clamorosi scandali dell’ultimo decennio, ovvero il caso Cambridge Analytica.

The Great Hack infatti è strutturato attorno ai contributi e alle confessioni delle varie persone coinvolte, a cominciare da Christopher Wyle, l’informatico ex dipendente dell’azienda, che ha rivelato come la società di consulenza britannica – vicina alla destra statunitense – avesse sfruttato i dati raccolti spiando i profili Facebook di circa 50 milioni di persone allo scopo di influenzare significativamente decine di campagne elettorali negli Stati Uniti e nel resto del mondo.

Un ruolo di primo piano è riservato poi alla controversa figura della direttrice del settore Business di Cambridge Analytica, Brittany Kaiser, la talpa che ha svelato come big data, Facebook e Trump abbiano violato la democrazia. Parallelamente il documentario segue il prezioso lavoro della reporter del Guardian, Carole Cadwalladr , che ha scoperchiato il caso, imputando una grossa responsabilità a Facebook nell’esito controverso della Brexit.

Il lato oscuro del web

The Great Hack svela come alla base della raccolta dati ci fosse un’applicazione chiamata thisisyourdigitallife che permetteva di produrre profili psicometrici basandosi sulle attività online svolte. Per utilizzarla gli utenti dovevano collegarsi semplicemente loggandosi tramite Facebook, permettendo così all’app di ottenere l’accesso a informazioni personali e sulla rete di amici contenute sul proprio profilo social.

L’enorme archivio di dati è stato così condiviso con Cambridge Analytica, violando i termini d’uso di Facebook, il quale però, secondo le testimonianze di Wyle e Kaiser, era al corrente del problema ed è intervenuto con colpevole ritardo.

Il risultato, infatti, è stato la sospensione di Cambridge Analytica da parte di Facebook soltanto dopo la scoperta dell’imminente pubblicazione degli articoli sul caso da parte del Guardian e del New York Times.

Dal furto alla manipolazione

L’aspetto più inquietante messo in luce da The Great Hack è tuttavia l’utilizzo che ne è stato fatto di tale mole di dati, scandagliata nei minimi dettagli all’insaputa dei proprietari. Le due campagne più celebri che hanno beneficiato del lavoro di questa società sono quelle per la Brexit e quella per l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump.

In questi casi, una volta individuati grazie all’app gli utenti maggiormente indecisi, sono stati utilizzati grandi quantità di account fasulli per diffondere post, fake news e altri contenuti carichi di odio nei confronti degli avversari politici, in modo tale da orientare le loro scelte verso la direzione desiderata.

Ma non è tutto: Cambridge Analytica sarebbe responsabile di aver orientato il voto durante le campagne elettorali in altri paesi del mondo come Malesia, Lituania, Romania, Kenya, Ghana, Nigeria e Trinidad & Tobago.

Scenari futuri

Oggi Cambridge Analytica ha chiuso i battenti e Facebook è stata multata di 5 miliardi proprio per aver fornito alla macchina della propaganda i dati di decine di migliaia di utenti ignari. Eppure lo scandalo esploso potrebbe rappresentare soltanto la punta dell’iceberg.

Lo scorso maggio l’Unione Europea ha promulgato il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) allo scopo di rafforzare la protezione dei dati personali degli utenti, ma nell’attuale epoca dei big data, in cui quest’ultimi – come ci spiega Brittany Kaiser – sono diventati la risorsa più preziosa al mondo, sorpassando anche il valore del petrolio, alcuni interrogativi sollevati da The Great Hack rimangono inevasi.

Quanto siamo effettivamente in grado di arginare l’ingerenza di potenti aziende nella nostra privacy? Quanta libertà di scelta abbiamo davvero nelle nostre decisioni politico-sociali? E quanto le moderne democrazie sono in grado di tutelare i cittadini dal potenziale divisivo di quella rete nata con il sogno di unirci?

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara

Valerio Ferrara nasce a Napoli nel 1990. Dopo aver conseguito il diploma classico, frequenta la facoltà di Economia, maturando in seguito la decisione di abbandonare questo percorso e intraprendere gli studi umanistici presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli studi di Napoli Federico II, dove consegue la laurea in Sociologia, presentando una tesi in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. La sua più grande passione è il cinema, con una spiccata predilezione per quello d’autore. Amante della musica sin dall’infanzia, è stato membro dei Black on Maroon, una band alternative rock partenopea. Dal 2016 è redattore della rivista Grado Zero.

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Valerio Ferrara

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