O perché l’oblio e la memoria sono specchi che riflettono l’uno l’abominio dell’altro?
Uno dei più interessanti spazi dedicati alla narrativa italiana che ho frequentato negli ultimi due anni è la casa editrice Wojtek. Prima con Tu che eri ogni ragazza di Emanuela Cocco, poi con Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato di Davide Morganti, avevo già individuato un punto di riferimento per incontrare autori capaci di offrire al lettore nuove aspettative su stile, lingua e voce; e la conferma è arrivata con Vocabolario minimo delle parole inventate a cura di Luca Marinelli, un vero laboratorio di scrittura e fucina, se non di nuove, di originali esperienze letterarie; spesso intercettate ospitando sulla carta stampata le esperienze del litweb. Tra gli autori del Vocabolario, il primo a esprimersi in solitaria dopo la pubblicazione dell’antologia – proprio per la stessa Wojtek – è stato Luca Mignola con il suo Racconti di Juarez del Sud.
Racconti di Juarez del Sud è una raccolta di testi brevi dalle strutture mobili, ci sono elementi che ritornano, momenti paratestuali che permettono alle parti del libro di dialogare ed esercitare una forte tensione sotterranea alla narrazione: la fondazione, il ricordo, la ri-fondazione, la scoperta di Juarez del Sud. A lasciarsi assorbire dalle pagine, di tanto in tanto, la percezione è quella del romanzo. E questo perché il luogo, Juarez, in queste pagine, diventa quasi ossessione della penna, strabordando dalla forma breve e frammentaria di cui è composto; come se lo spazio riservatogli non bastasse.
Come detto, Luca Mignola si inserisce tra quelle voci che, già nel Vocabolario (dove è autore di Transkafkamento), invitano chi legge a individuare nuovi orizzonti narrativi; o quanto meno a chiedersi come si racconta una storia ai giorni nostri, secondo quali stilemi e quali temi. Le suggestioni sono molteplici – l’autore attinge a un ampio bacino culturale spaziando dalla metafisica alla mitologia classica – e fin dalle prime pagine, quelle del “Prologo da Janka sul confine”, se ne percepisce la densità. Qui, in un passaggio a mio parere fondamentale per l’interpretazione del testo – e quindi inserito in calce a quest’articolo – un uomo, piegato sulla sua scrivania, allo stremo delle forze, riconosce in memoria e oblio i principi per comprende la materia di cui è fatta Juarez del Sud.
Queste pagine accolgono un’eco lontana, quella della biblioteca del Pascal di Pirandello, il quale appena a inizio secolo scorso, nel 1904, perso tra le sue carte, anche lui prostrato, dichiarava «non mi par tempo di scrivere libri, neppure per ischerzo». Un segnale che allora venne letto come l’assillo d’uno scrittore che vedeva perduta la strada del romanzo classico, e quindi l’impossibilità di continuare a scrivere. Per Mignola il romanzo classico è acqua passata (non dimenticata), qui l’impianto di base è il racconto moderno, di matrice borgesiana, pigliana, laisechiana, insomma di quel fantastico sudamericano che tanto ha influenzato la sua formazione; ma un assillo c’è, o quanto meno una forte intenzione: individuare una tradizione, guadagnarla a fatica scavando, appunto, in oblio e memoria.
Una notte Vasyl vergò questa pagina in preda alla febbre del significante: “Nella mente di Hegel non c’era contraddizione tra la frase ‘Salterò nella tomba ridendo’, pronunciata quando l’Anfizionia stava estinguendosi, e la frase ‘Sarò lieto se mi defenestrerete in pubblico, come monito per tutti i metafisici di questa terra’: quest’ultima, in circostanze tanto diverse, assolveva alla stessa funzione della precedente: lo esaltava. Perché? Le istanze dei perché abbondano nei libri: malvagità della natura; paura dell’infinito e dell’indefinito; impossibilità di razionalizzare; sostituzione del sogno; confusione; incertezza; cerchio; labirinto; specchio; mostro; metafisica. Pare inoltre che una delle prime rappresentazioni della parola metafisica, inerisse al modo in cui i rospi gonfiano le ghiandole”.
Muoversi nella Juarez del Sud di Luca Mignola è disorientante. Il sogno entra nella realtà, è un riflesso, un sogno nel sogno che poi si disperde. Juarez è un luogo inafferrabile, come i frammenti che ne compongono la storia, che ne definiscono la cosmogonia. Il frammento, forma chiusa e breve per eccellenza, qui si dischiude e genera connessioni – tra parti del testo e tra racconti – e crea una sorta di movimento tellurico capace di spostare la stessa città fondata per deviarne gli immaginari, per ricaricarla di volta in volta di senso. L’oblio e la memoria, materie prime di queste continue ricostruzioni, si muovono seguendo le proprie direttrici pur avendo, in fondo al loro percorso, la stessa fine o punto di ricongiungimento: la morte. Eppure prima dell’epilogo le storie proliferano, esplodono, provano a toccarsi, a raccontarsi a vicenda, si cercano, si sfiorano ma non si definiscono, non trovano mai una forma ultima.
Con i suoi racconti Luca Mignola ci invita in una città di confine che, oltre a segnare il suo esordio letterario, dispone davanti ai nostri occhi uno sterminato immaginario di cui, nonostante gli sforzi, vediamo molto poco se non nulla. Un luogo che lascia tracce nella memoria e instilla nel lettore il desiderio del ritorno.
Antonio Esposito
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