Dimenticati nel cassetto: “Butcher’s Crossing” di John Williams
Chi non ha letto Stoner? O – comunque – non è stato tentato di farlo, soprattutto per l’imponente opera di persuasione pubblicitaria che gli è ruotata intorno? Forse pochi. Per Butcher’s Crossing vale l’esatto contrario. Stesso autore, tema antitetico, nessuna spinta social a considerarlo degno di lettura. Eppure – al di là della riflessione che questi aspetti a mio avviso obbligano a porsi – è su questo quasi sconosciuto romanzo che affronta il tema del ritorno alla Natura che vorrei soffermarmi.
L’infinito tema della Natura madre o matrigna
Perché scappare dalla propria vita cittadina e universitaria? Perché abbandonare l’idea di una propria realizzazione professionale e sociale per fuggire verso l’ignoto? E ancora: perché rifiutare il monotono susseguirsi di accadimenti quotidiani per gettarsi a capofitto nella fatica e nel pericolo che ci costringe ad affrontare la Natura incontaminata? John Williams prova a raccontarcelo attraverso i dubbi e le aspirazioni di Andrews, un giovane e promettente studente di Boston che decide improvvisamente di lasciarsi alle spalle le regole della società civile e di andare incontro ai misteri che serba dentro di sé l’esistenza di ognuno di noi. Non sarà facile, lo immaginiamo, ma gli aprirà lo sguardo sul significato ultimo della vita.
Stoner o Andrews?
Sarei tentata di dilungarmi in un confronto diretto tra Stoner e Andrews – tutto sommato due personaggi che all’inizio delle rispettive storie potrebbero essere la stessa persona, ma che poi prendono due strade diametralmente opposte insieme ai lori romanzi – ma poi il tema della recensione diverrebbe un altro. Lascio soltanto il consiglio di leggere entrambe le opere di Williams e di ricavarne un’impressione unica. Cosa spinge Stoner a non modificare la propria vita? Una sorta di arrendevolezza o di saggia consapevolezza? L’indeguatezza ci raggiunge ovunque, nella cittadina di Stoner come nella valle incantata di Butcher’s Crossing? Siamo certi che sia Andrews a uscirne vincitore? È interessante sottolineare che Stoner sia stato scritto dopo Butcher’s Crossing oppure no? Mi piacerebbe che qualche lettore provasse a commentare questi interrogativi, anche in seguito alla recensione, o comunque nella sua testa.
L’infinito viaggiare
Quale avventura avrebbe potuto rappresentare meglio di una monumentale caccia al bisonte questi interrogativi? E quale Natura avrebbe potuto mostrarci con più violenza l’infinito dibattito lucreziano? Williams ci immerge dentro tutto questo ribollire di temi ed emozioni, raccontandoci il viaggio disperato di Andrews, dell’esperto cacciatore Miller e di altri due improbabili personaggi verso un remoto e incontaminato Colorado, dove era stata avvistata una mandria di oltre cinquemila bisonti.
La trama è molto semplice e lineare. La trasposizione è quasi cinematografica. La caratterizzazione dei personaggi forte e un po’ didascalica. Ma è la Natura la vera protagonista. Bella di una bellezza che ferisce, inconoscibile, del tutto indifferente alle sorti degli umani che la abitano.
La wilderness e la cultura americana
La natura selvaggia – si sa – è più uno stato d’animo che una mera condizione geografica. Ce lo insegna la letteratura americana del XIX secolo ma forse anche la nostra stessa esperienza. La civiltà occidentale scoprì il valore spirituale della wilderness nel momento in cui riversò la propria esistenza (e le proprie aspirazioni deluse) dentro i recinti di anonime e gigantesche città. La riscoprì – in fondo – nel momento in cui la perse. E come per l’infanzia, quando uno la perde, la perde per sempre. Ma quando si avverte questa linea d’ombra conradiana, quando ci si accorge che si sta perdendo qualcosa per sempre, si prova una nostalgia che obbliga alla riflessione, alla fuga, al ritorno alle origini.
Lo scenario è l’immensità e il silenzio di un luogo ancora integro ed autentico, dove non c’è spazio per i dettagli, le inezie, i battibecchi. Davanti allo spettacolo della Natura, il rumore inutile che accompagna il sottofondo delle nostre vite industriali e industriose si zittisce, il tempo sembra fermarsi, i nostri pensieri si elevano, le nostre preoccupazioni si placano. È il mito della Natura incontaminata, della “Great American Wilderness”. Ed è qualcosa che è profondamente radicato dentro la nostra cultura.
Thoreau, Emerson, London, Leopold
Il concetto di wilderness ha le sue radici più profonde nel pensiero filosofico di Emerson e di Thoreau, i primi che diedero un valore culturale al desiderio insopprimibile dell’uomo retto e sognatore di abbandonare le stupide e rigide regole sociali che vengono sempre e volontariamente mal interpretate dagli organi del potere e di spingersi lontano, a cercare nel rapporto individuale con la Natura la propria fonte di riflessione e soddisfazione. Il trascendentalista non ha bisogno dell’approvazione sociale, dell’obolo, del confronto con l’opinione comune. Basti pensare a un libro come “Walden”.
Ho aperto il cassetto perché…
È un romanzo per certi versi violento e scomodo, per altri (eccessivamente?) à la mode. Attraverso il suo linguaggio asciutto, Williams soddisfa pienamente il bisogno attuale del ritorno alle origini, della fuga, di un certo anticonformiso, ma attenzione: non si tratta di un trascendentalismo modaiolo e annacquato, tutt’altro. È incantevole perdersi nelle sue digressioni naturalistiche, nella descrizione vivida dei paesaggi e di una Natura che ci appare quasi primordiale, ma per l’appunto questo non è tutto. L’autore ci offre anche lo spunto per una riflessione più ampia sul senso della scelta, della realizzazione esistenziale, della possibilità di cambiare il corso della propria vita.
Se l’avete dimenticati, prendetelo in mano e apritelo alla prima pagina.
Anna Pietroboni