Oggi la rubrica propone un salto temporale. Infatti l’appuntamento di Poetesse italiane del Novecento è con l’autrice Ilaria Palomba, poetessa di ‘oggi’ , che ha accettato di raccontarsi su GradoZero rispondendo ad alcune mie domande. Deserto (Fausibilia, 2019) è la sua ultima raccolta. Mettiamo da parte lo smartphone, isoliamoci dal virtuale e addentriamoci nella poesia della scrittrice.
Deserto è la seconda silloge di una trilogia che inizia con Mancanza (Augh!) e termina con la nuova silloge che sto scrivendo. Deserto è il negativo, l’antitesi, il punto più basso che può raggiungere una coscienza. Ciascuno almeno una volta nella vita deve attraversare il deserto e sapere se soccomberà nella solitudine estrema o raggiungerà un’oasi scoprendosi mutato. Dai momenti di angoscia e disperazione si esce solo se si attraversa il deserto.
Non credo abbia senso conferire un titolo a un frammento, le mie poesie sono frammenti, spesso scrivo pagine intere e poi le cancello, trovo la poesia nelle ultime cinque righe.
Solitamente si aspettano risposte ma trovo sia necessario porre l’accento sulla ricerca delle domande, nessuna risposta sarà possibile se non si cerca la domanda. La domanda fondamentale per me è l’esistenza nel tempo, il tempo è sempre stato un mostro divoratore ma il tempo è anche ciò che ci permette la distanza d’osservazione in cui ciò che appariva aporetico viene sciolto dal divenire del mondo. L’infanzia è soprattutto un paesaggio: le campagne di Canosa di Puglia, l’illimitato spazio selvaggio in cui sono cresciuta. È un paesaggio metafisico più che geografico, un luogo che forse è solo nella mia mente, di cui ho nostalgia. La nostalgia è il tempo che non può tornare e la memoria di luoghi che non esistono. Per quanto riguarda il tempo, alcune risposte importanti le ho trovate in Emil Cioran, nel libro: La caduta nel tempo (Adelphi).
Dire addio è un ritrovarsi, finché si riesce a pronunciare un addio l’altro non è ancora svanito. Tra le mie fonti, e per fonti intendo gli autori che mi hanno inciso le loro parole nel sangue, principalmente ci sono: Baudelaire, Rimbaud, Alejandra Pizarnik, Amelia Rosselli, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Camus, Cioran, Deleuze.
“Strapparmi lembi di carne”, infatti la ripeto spesso quando m’invitano a leggere delle poesie; fino al momento della pubblicazione non sapevo se tenerla o cancellarla, per via del fatto che è molto violenta se non addirittura criminale. Coincide con un’idea d’amore devastante dove ci si divora. Ho deciso di tenerla e anzi di approfondire il tema del divorarsi. Non credo nella funzione pedagogica della letteratura. La scrittura è per me un pugnale.
La letteratura non è mai autobiografica, anche quando parla di una vita simultaneamente parla anche di altro. Il confine non esiste e se c’è è molto labile. È vera arte solo se brucia, se mette in dubbio l’esistenza nella sua interezza e le regole sociali. Scrivere è vivere altre mille vite e viverle per intero.
Tantissimo. La filosofia è la vera e unica possibile cura al male psichico, sociale, ontologico.
Sì, in entrambi c’è un uomo che si pone interrogativi sul suo presente, non lo accetta e vive in un sottosuolo o nella doppiezza uomo-animale, compie atti tremendi ma sono modi per conoscere la vita, raggiungere una verità, o quanto meno cercarla. Guido Morselli è l’autore italiano che più amo, la sua scrittura è minuziosa, di una profondità psicologica mai eguagliata. Ovviamente non è stato compreso, il genio sfugge a ogni forma di medietà.
Alda Merini del dolore ne sapeva fin troppo, del dolore esperito sulla pelle intendo. Credo che nessun sano di mente potrebbe mai essere un poeta, quanto meno non un buon poeta. La poesia come cura? Non so se possa esserlo, dignità sicuramente. Per me è un demone, un destino.
Ridere del proprio dolore. Ridere di tutto. Vivere al di là dei limiti. I limiti sono sempre estrinseci, i limiti sono le regole degli altri. Oltre il deserto c’è la realtà che m’invento. La realtà è una costruzione immaginifica, salvarsi o meno dipende dalla propria capacità immaginativa.
Uno sconfinamento.
In cantiere ho un romanzo di cui ho parlato al Festival L’anno che verrà, sarà pubblicato da Giulio Perrone, e colgo l’occasione per ringraziare quattro donne meravigliose che mi sono state accanto durante le varie stesure: Rossana Campo, Manuela Maddamma, Mariacarmela Leto e Isabella Borghese. Si chiama Brama, è un romanzo che parla di dipendenze affettive, desiderio, dolore, suicidio, della nostra fragilità di esseri umani in tempi in cui non c’è più nulla di umano. Brama è più forte di desiderio, brama è bruciante volontà di vivere, di sopravvivere al mondo, alla famiglia, all’abbandono, mentre tutto intorno muore.
Ilaria Palomba è nata a Bari nel 1987, è laureata in Filosofia, ha tenuto laboratori di scrittura creativa presso Scuola Omero e nei centri diurni di psichiatria. Ha esordito nel 2012 con il romanzo Fatti male (Gaffi), tradotto in tedesco per Aufbau-verlag; ha pubblicato i romanzi Homo homini virus (MeridianoZero), Premio Carver 2015, Finalista Premio Nabokov 2015; Una volta l’estate (Meridiano Zero) a quattro mani con Luigi Annibaldi; il saggio Io sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud); il romanzo Disturbi di luminosità (Gaffi); le sillogi poetiche: Mancanza (Augh!) e Deserto (Fusibilia, Premio Profumi di Poesia 2018). Alcune sue poesie sono su Nuovi Argomenti, il racconto Le altalene su Retabloid di Oblique. È stata ospite al Caffè di Raiuno con Disturbi di Luminosità. Alcuni racconti sono
pubblicati nelle antologie Il mestiere più antico del mondo? (Elliot); Sorridi, siamo a Roma (Ponte Sisto); altri tradotti in inglese e francese, rispettivamente per Mammoth Book e Les Cahiers européens del’imaginaire. Attualmente vive a Roma.
Valentina Grasso
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