C’è stato un presidente che non ha mai indossato la cravatta, mai utilizzato un cellulare, che ha proibito ai funzionari di governo di usare Facebook, Twitter o qualsiasi altro social e che ha sempre preferito la piccola fattoria della moglie al magnifico palazzo presidenziale. Si chiama José Alberto Mujica Cordano, meglio noto come Pepe Mujica, 40° presidente dell’Uruguay, primo ex-guerrigliero ad arrivare alla presidenza del paese, in carica dal 2010 al 2015.
La sua vita è stata raccontata al regista bosniaco Emir Kusturica nell’appassionato documentario “Pepe Mujica – Una vita suprema”, presentato nella sezione Fuori Concorso alla 75ª Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia.
Dopotutto un personaggio così iconico non poteva non suscitare l’interesse di un regista come Kusturica, da sempre attento alle tematiche politiche e sociali, esponente di quella intellighenzia jugoslava che dagli anni ’70 ha criticato ferocemente il regime di Tito.
«Non sapevo nulla dell’Uruguay, – ha spiegato Kusturica a Venezia – qualcuno mi ha detto: c’è un presidente che guida il trattore. Mi sono detto: devo conoscerlo».
Il regista scava così nell’eredità di uno dei personaggi politici più amati di sempre, discutendo con lui del senso della vita, non solo da una prospettiva politica ma anche e soprattutto da un punto di vista poetico, alternando sapientemente materiale di repertorio inedito e originale (basti pensare alle sequenze de L’Amerikano di Costas-Gravas).
L’ex presidente uruguaiano, che molti ancora chiamano il “Che Guevara senza sigaro”, è stato un capo dello stato che ha fatto della frugalità una regola di vita, mostrando al mondo intero come sia possibile costruire un mondo migliore dove vivere meglio, lontano dai dettami del capitalismo più sfrenato.
Mujica, durante il suo mandato, ha devoluto il 90% del suo stipendio mensile – circa 9.000 € – cavandosela con i 900 restanti, perché “molti dei suoi concittadini devono accontentarsi di molto meno”, guadagnandosi per questo l’appellativo di “presidente più povero del mondo”.
E non è un caso che ancora oggi Mujica ci spinga a riflettere sulle nostre priorità, avvertendoci di un consumismo distruttivo per l’ambiente e inutile per l’uomo: è stata, infatti, la sua esperienza nel movimento dei guerriglieri Tupamaros, il Movimento di Liberazione Nazionale ispirato alla rivoluzione cubana, e i 12 anni di durissima prigionia – raccontata insieme ai suoi compañeros Mauricio Rosencof, poeta di fama, e Fernández Huidobro, senatore e Ministro della Difesa – ad aver plasmato il suo ideale politico e la sua filosofia di vita.
Il documentario restituisce così l’immagine dell’uomo dietro il presidente, trascurando forse deliberatamente alcuni aspetti politici legati al quinquennio del suo governo e all’attività di militanza. Mujica appare come il custode di una saggezza da tramandare alle generazioni future, una guida che insegni a sfidare convenzioni e formalismi e a riportare al centro del vivere comune l’uomo con i suoi sogni, le sue passioni e le sue speranze.
Il suo è uno sguardo tenero e consapevole sul mondo e sulla vita il quale lo porta ad affermare, ormai al tramonto della sua esistenza, che, per quanto possa sembrare assurdo, «a volte ciò che è male è bene, e viceversa, ciò che è bene è male» e che forse andrebbe riconsiderato il valore edificante del dolore e del fallimento («bisogna aver fallito almeno una volta nella vita per capire il tango»).
Kusturica accoglie la sua storia con gentilezza, si fa da parte quando necessario e condivide esitante il mate in quel gesto rituale che sin da subito crea complicità. E noi con lui entriamo in sintonia con quel presidente dal sorriso bonario che nel suo ultimo giorno in carica percorre – ancora una volta in barba ai protocolli – le strade di Montevideo nel suo umile maggiolino del 1987, per raggiungere il suo popolo e gridargli dal palco «Non sto andando via, sto arrivando!».
Valerio Ferrara
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