Racconto: Storia di un tatuaggio – Eugenio Biasetti
Alla memoria di Tanizaki Jun’ichirō
Se in sogno un uomo attraversasse il Paradiso,
e gli dessero un fiore come prova d’essere stato lì,
e se al risveglio si trovasse quel fiore in mano…
allora?S. T. COLERIDGE
Ho rimandato così tante volte il racconto di questa storia che oggi, dopo tanti anni, crederei di averla soltanto sognata se non ne avessi un segno certo e indelebile impresso sulla carne. Nell’esposizione dei fatti cercherò di essere fedele alla realtà, o almeno a quello che ancora ricordo della realtà, il che non fa poi tanta differenza. La vicenda copre l’arco di una notte, ma sospetto che né il tempo né il luogo nei quali essa si svolse sono indispensabili ai fini della mia narrazione.
Mi trovavo, come al solito, in un quartiere periferico di un periferico paese. Per correttezza non dirò precisamente dove, né quando: dettagli del genere sono troppo vaghi e solo oggi me ne rendo conto. Tuttavia non mi costerebbe nulla inventare particolari per essere più credibile o più allettante, ma la verità è che mi sembra davvero inutile complicare le cose. Dirò soltanto che la protagonista di questa storia è una donna, una giovane donna di cui ancora oggi ignoro il nome, e che la sua bellezza non è paragonabile a quella delle altre. La incontrai in una casa di piacere, un edificio mezzo diroccato il cui aspetto avrebbe allontanato chiunque. Non era molto tardi quando tornai da lei la seconda notte, e all’ingresso fui ricevuto da due vecchie signore.
Come sempre accade in queste circostanze, ebbi dei problemi che si risolsero facilmente non appena dissi di essere già stato un loro cliente. A quei tempi facevo ancora il tatuatore per vivere, e dovetti anche spiegare per quale motivo avessi con me alcuni attrezzi del mestiere. Naturalmente non credettero a nessuna delle mie parole, ma mi fecero passare comunque, abituate com’erano a certe stranezze. Una delle due donne mi invitò a seguirla per le scale. Obbedii senza discutere.
Mentre salivamo verso l’ultimo piano, nel silenzio unanime della casa, l’anziana mi rivolse parole che ormai non ricordo. Facevo fatica ad avanzare ed ebbi la sensazione che quei gradini in realtà non portassero in nessun luogo. Ogni pianerottolo su cui svoltavamo per salire una nuova rampa, sembrava identico al precedente e gemello del successivo. La donna continuava a parlare. Forse ci teneva a farmi sapere per quale motivo avessero spostato le stanze, che si erano trovate al primo piano fino al giorno precedente; o forse non aveva niente di meglio da fare. Io intanto, senza darle troppo ascolto, continuavo a salire.
Arrivati finalmente in cima alle scale sostammo, per un tempo che mi parve insolitamente lungo, davanti a una porta senza serratura e dai battenti di uno strano colore rosso. La vecchia signora mi consegnò ugualmente le chiavi, ripetendomi alcune raccomandazioni. Poi svanì alle mie spalle. Non avevo ancora incontrato nessuno per la casa oltre a quelle donne, me non me ne stupii più di tanto. A pensarci bene era notte fonda e forse gli altri clienti erano già arrivati da un pezzo.
Aprii la porta molto lentamente osservando bene all’interno, come per accertarmi che fosse il posto giusto. La camera era molto buia, ma riconobbi subito il corpo nudo e flessuoso che mi aveva spinto a tornare. La ragazza stava languidamente distesa sul letto, a pochi passi da dove mi ero fermato. Nella fitta trama della penombra potevo cogliere appena l’espressione vaga del suo volto, ma sembrava che mi stesse aspettando, e nel vedermi sulla soglia parve quasi sorridere. Quando la porta fu richiusa alle mie spalle, con un molle e tenero gesto – senza parlare – indicò i suoi piedi, e io m’inchinai a baciarne le piante.
Avevano l’aspetto immacolato della neve. Supposi che non le avesse mai poggiate a terra ed ebbi il desiderio di impedirglielo per sempre. Le unghie delle dita erano lucide e terse come il cristallo o il diamante; e se avessi acceso la luce probabilmente il suo corpo mi sarebbe apparso diafano come quelle. Stavo per dire qualcosa quando il suono della sua voce m’interruppe.
«Sei tornato» disse a bassa voce. «Hai intenzione di mantenere le tue promesse, a quanto pare…».
La frase era affettata e intuii che se l’era già ripetuta più volte, ma non mi dispiacque. Forse stava a significare che mi aveva atteso realmente, o che almeno era incuriosita dalla situazione. Mi trovavo ancora in ginocchio, e quando provai ad alzare la testa verso lo specchio appeso al soffitto, il peso di un suo piede, appoggiato tempestivamente sopra il mio capo, mi impedì di sollevare gli occhi da quelle estremità così pallide. Non disse niente, e si limitò a osservarmi con una specie di ironico sorriso che le piegava appena la punta delle labbra. Avrei voluto spiare il suo corpo riflesso nel fondo dello specchio, per scoprirne magari un particolare nascosto, e vedermi anch’io al suo cospetto come lei mi poteva vedere adesso; ansioso di sapere che cosa quella notte i suoi favori mi avrebbero finalmente concesso. In realtà ero sicuro che il mio desiderio sarebbe stato soddisfatto, ma trovavo irritante quel suo prolungato silenzio. Ogni tanto un piccolo calcio mi scostava la bocca da quei piedi, ricordandomi che era un privilegio poterglieli baciare.
E infatti non durò a lungo.
«Avanti, tira fuori gli attrezzi e cominciamo», disse a un tratto; e alzandosi dal letto accese la luce. Nel vedere che indugiavo, m’insistette: «Non ti vorrai mica tirare indietro?»
Non me lo feci più ripetere, e in un attimo tutto l’occorrente era sparso sul grande letto. Subito dopo presi con delicatezza il calco dei suoi piedi che rimase impresso come un’ombra sul candore del foglio. Poi mi ordinò di stendermi prono sul pavimento. Salì sul mio corpo calpestandomi con forza, e ridiscese sedendosi delicatamente sulla mia schiena. L’ago era già pronto, e quando ebbe sistemato il foglio tra le mie scapole sentii il freddo acciaio della punta dell’utensile penetrare veloce e atteso nella mia carne. Non aveva molta esperienza come tatuatrice, ma ero certo che quello sarebbe stato il suo primo capolavoro. All’inizio le sue mani si spostavano lentamente, quasi fossero appesantite da una forza insospettata che le trascinava a loro insaputa. Ma gradualmente i movimenti presero un ritmo regolare, e a ogni colpo sembrava che il sangue defluisse veloce dal labirinto delle vene per essere assorbito dall’ago, il quale al suo posto iniettava rapido sotto la mia pelle il nero dell’inchiostro che si espandeva denso come l’olio. Le punture cominciarono a far male, e la ragazza era quasi divertita dal dolore che riusciva a provocarmi, come se fosse il giusto prezzo da pagare per quel dono che mi stava concedendo. A poco a poco le orme di quei piedi prendevano forma, e io avrei portato con orgoglio tutta la vita la stimmate di tanta bellezza stampata a fuoco sulla mia carne. Pensai che deve essere questo il piacere che invade il Santo o la Mistica quando scoprono sul loro corpo l’impronta ardente del Signore.
Finché il lavoro non fu finito non volle interrompersi nemmeno per un istante. Percepivo chiaramente tutta l’energia che metteva nei movimenti, e quasi presagivo le linee che sarebbe andata tracciando a seconda della particolare inclinazione dell’ago, o della forza con cui lo spingeva nel mio corpo. Non ricordo quanto tempo ci volle per completare il lavoro. So soltanto che verso la fine mi resi conto del grande sforzo che le aveva comportato. Sentivo che la stretta delle sue mani cominciava a indebolirsi, ma il ritmo rimaneva sempre lo stesso. Poi si fece più lento, più leggero. A tratti si fermava, e passando lievemente le sue dita sulla mia schiena sembrava sfumare la figura che era andata via via componendo. L’ago divenne più morbido, come una leggera carezza. Il dolore stava diminuendo, ma sarebbe stata soltanto una tregua temporanea. In ogni caso i colpi ora erano divenuti delle lievi punture, come quelle di uno strano insetto. Non facevano più male. L’ago sempre più raramente penetrava la mia pelle. Capii che con l’accortezza di un artigiano stava eseguendo gli ultimi ritocchi su quel suo capolavoro. Non molto tempo dopo il tatuaggio era compiuto.
Girai leggermente la testa verso l’alto, per osservare riflessa nello specchio del soffitto quella meravigliosa immagine impressa sulla mia schiena.
«È tutto finito», sospirai.
Stavo per rialzarmi da terra quando risalì sopra di me, e le piante morbide dei suoi piedi combaciarono perfettamente con il disegno che era stato appena inciso sul mio corpo.
Ridiscese lentamente, quasi volendo indugiare il più possibile sopra quelle impronte, come se cercasse di fissarle meglio sulla mia carne; sentii all’improvviso la sua bocca avvicinarsi sommessamente al mio orecchio, e il fluido tepore del suo respiro per un attimo mi accarezzò la pelle.
Poi, quasi sussurrando, sembrò che mi dicesse: «Ora ti potrò calpestare per sempre».
Eugenio Biasetti