Un’opera d’arte viene percepita sullo sfondo di altre opere d’arte ed associandola ad esse. La forma di un’opera d’arte è determinata dal rapporto con altre forme esistenti prima di essa… non solo la parodia, ma in genere ogni opera d’arte viene creata come parallelo e antitesi di un qualche modello. Una nuova forma appare non per esprimere un nuovo contenuto, ma per sostituire una forma vecchia che abbia ormai perduto il suo valore artistico.
V.B. Šklovskij, I formalisti russi
Mi sia consentito dichiarare che senza queste note il testo di Shade semplicemente non possiede alcuna umana realtà […] realtà che soltanto le mie note possono fornire. È probabile che il mio caro poeta non avrebbe condiviso quest’affermazione, ma, nel bene come nel male, è il commentatore ad avere l’ultima parola.
V. Nabokov, Fuoco pallido
[1]Le lettere che Pelafina Heather Lièvre invia al figlio Johnny Truant dal Three Attic Whalestoe Institut, la casa di cura in cui morirà nel maggio del 1989, coprono un arco cronologico di quasi sette anni – la prima: “Mio caro bambino, tua madre è qui, non del tutto, ma è qui”, è datata 28 luglio 1982 – precedono, quindi, di circa quindici anni l’incontro di Johnny con Zampanò e con la Versione di Navidson. Il manoscritto di Zampanò – fatto di “grovigli infiniti di parole che contorcendosi andavano a formare un significato, ma più spesso no, e si diramavano in frammenti sempre nuovi in cui mi sarei imbattuto più avanti – su vecchi fazzoletti, sui bordi sgualciti di una busta da lettere, una volta perfino sul retro di un francobollo; non c’era nulla, ma proprio nulla su cui non fosse stato scritto qualcosa[2]” – è il commento di un film – il Navidson Record – redatto da un vecchio cieco, che analizza la pellicola in tutti i suoi aspetti e infarcisce il testo di riferimenti bibliografici reali e fittizi, predisponendo nel lettore tutto il ventaglio delle interpretazioni possibili (dalla psicoanalisi alla metafisica) – interpretazioni puntualmente smentite, proprio nel momento in cui esse si affacciano alla mente di chi legge.
“Questo non è per te”, recita l’esergo.
La complessità di Casa di foglie, ripubblicato a fine 2019 dalla romana 66thand2nd nella nuova traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti, si realizza nel gioco di specchi che caratterizza la sua struttura, un’acrobazia formale e tematica che ne moltiplica i livelli e introduce almeno quattro diversi piani narrativi e stilistici, tutti peraltro marcati graficamente dall’uso di font differenti, che soccorrono il lettore laddove il testo, rendendosi mimetico rispetto alla trama, diventa un groviglio labirintico, che solo abbandonandosi al gioco che Danielewski imbastisce – un po’ perdendosi, un po’ ritrovandosi – si finisce per dominare.
Siamo a Los Angeles: un vecchio cieco di nome Zampanò è morto in circostanze misteriose e inquietanti, il suo appartamento è occupato da Johnny Truant, un aiuto-tatuatore dedito all’alcol e alla droga, con un pesante carico di rimosso legato all’infanzia e all’adolescenza. Nell’appartamento, cui Johnny è condotto dall’amico Lude, c’è un manoscritto lasciato da Zampanò. Truant decide di leggerlo, ricostruirlo, editarlo: è il commento di un film-documentario girato dal Premio Pulizer Will Navidson sulla sua casa in Virginia – casa in cui Navidson si è trasferito con la famiglia, la moglie Karen e i due figli, un cane e un gatto, per salvare il matrimonio in crisi – e sulle Esplorazioni della casa che a un certo punto si sono rese necessarie. Ash Three Lane, la casa dei Navidson, si presenta come un luogo singolare fin dalle prime pagine – il lettore ne troverà elencate le caratteristiche nel cap. XVI[3].
L’elemento che avvia la macchina narrativa e apre la strada alle cinque Esplorazioni è una variazione di 7 mm rilevata tra le dimensioni interne e quelle esterne della Casa: la capacità di cambiare la propria geometria e il ringhio, che essa produce, sono percepiti con angoscia dagli abitanti e dai visitatori che tenteranno di volta in volta, anche con esiti tragici, di sondarne il mistero.
Il contenuto del Navidson Record non può essere visto dal lettore, chiamato a uno sforzo di ricostruzione dal commento di Zampanò. E tale commento, insieme a quello di Truant e alla sistemazione finale a opera dei Redattori, determina il sistema di anelli che avvolge la Casa – un cielo apparentemente chiuso, claustrofobico, ma che predispone fin dalle prime battute il suo punto di fuga, la sua deriva verso un inconcepibile orizzonte di rarefazione.
In generale, a chi tentasse di disporre l’una accanto all’altra le voci che danno forma alla trama, esse apparirebbero pressappoco in questa sequenza: il film che Zampanò descrive, il testo di Zampanò, le note di Truant, le note dei Redattori. È evidente però che quanto vediamo, per quanto complesso, è solo il primo livello testuale, la superficie.
Cosa cela allora la Casa e come orientarsi al suo interno?
Nel capitolo V Zampanò analizza il fenomeno dell’eco. Sul piano della trama questa sezione ha una forte valenza: Zampanò è cieco ed è quindi sensibile al tema dell’acustica; un’oscurità opaca e sconcertante riveste le pareti della Casa, al cui interno le bussole non funzionano: l’eco dota chi la esplora di un necessario strumento di orientamento.
Ma il saggio sull’eco di Zampanò[4] è anche qualcosa di più: una riflessione meta-letteraria, una presa di posizione poetica ed estetica, il bilancio di un certo modo di concepire la narrazione e il punto da cui può partire il ripensamento di un metodo: è la bussola che Danielewski sta mettendo nelle mani del lettore.
Zampanò esordisce soffermandosi sulle “molteplici risonanze” e i “riverberi interni della parola”, espressioni che, già di per sé, proiettano il lettore in una dimensione del tutto particolare. L’eco ed Eco saranno quindi indagate sia dal punto di vista mitologico, sia dal punto di vista scientifico: i due approcci infatti forniscono “una prospettiva leggermente diversa sul significato intrinseco di ricorrenza, in particolar modo quando la ripetizione è imperfetta”. L’eco imperfetta è evidentemente una contraddizione in termini, eppure Danielewski sta per dimostrarne la possibilità.
Dopo aver riferito le storie che circolano su Eco[5], Zampanò si sofferma su due espressioni: adonta ta melê, le membra risuonanti di Eco, e sonus est, qui vivit in illa.
Commenta Zampanò (Cdf, p. 44):
Eco tinge le parole di lievi sfumature di dolore (il mito di Narciso) o accusa (il mito di Pan) che non sono presenti nell’originale.
E ancora (Cdf, p. 45):
Lo ripeto: è il suono che vive in lei. La sua voce è viva, possiede una qualità che non è presente nell’originale, a dimostrazione che una ninfa può riferire una storia diversa e più significativa, nonostante sia la stessa.
L’argomentazione si sposta nella nota 49, nota con cui Zampanò spinge il lettore verso la vertigine: senza citare Borges e il racconto “Pierre Menard, autore del Chisciotte”, ma appropriandosi di Borges, il vecchio riporta il passo di Cervantes del capitolo IX, parte prima del Don Chisciotte e lo confronta con la riscrittura tentata da Pierre Menard. Non si tratta di un puro gioco citazionistico e l’impressione è fortissima: Zampanò, in definitiva, sta riscrivendo “Pierre Menard, autore del Chisciotte”[6]:
Lo straordinario scrittore Miguel de Cervantes inserisce questo coinvolgente passo nel suo Don Chisciotte (Parte Prima, Capitolo IX):
…la verdad, cuya madre es la historia, émula del tiempo, depósito de las acciones, testigo de lo posado, ejemplo y aviso de lo presente, advertencia de lo por venir.
Molto più tardi, dopo la Seconda guerra mondiale, un giovane coscritto mai messo alla prova ebbe il raro piacere di conoscere il grande Pierre Menard in un caffè di Parigi. A quanto pare, Menard si pronunciò sul profondo disprezzo per le madeleine, ma non fece menzione del passo (e un’eco del Don Chisciotte) che aveva composto prima della guerra e che gli era valso una discreta fama letteraria:
…la verdad, cuya madre es la historia, émula del tiempo, depósito de las acciones, testigo de lo posado, ejemplo y aviso de lo presente, advertencia de lo por venir.
Questa squisita variazione sul passo dell’ingenio lego è fin troppo ricca perché si possa esaminarla in questa sede. Basti dire che le sfumature di Menard sono così sottili da risultare quasi impercettibili, ma si interpelli il Progettista per cogliere il carico di dolore, accuse e sarcasmo che grava su di esse.
Il ripensamento del “metodo Borges”, cui si è fatto riferimento, la bussola teorica che Danielewski ci consegna, conserva certamente i due elementi tipici della poetica borgesiana – l’elevazione del saggio a narrazione, con la perfetta mescolanza di componente narrativa e componente saggistica, e l’uso estremo della citazione, reale o fittizia che sia – ma c’è anche qualcosa di più.
Borges teorizza e, al contempo, pratica il “metodo Menard” in Finzioni e in particolare nel racconto che abbiamo richiamato. “Pierre Menard, autore del Chisciotte” ha come obiettivo la difesa dell’opera “invisibile, sotterranea, infinitamente eroica, impareggiabile” di Pierre Menard, ovvero i capitoli IX, XXXVIII e un frammento del capitolo XXII della prima parte del Don Chisciotte di Cervantes.
Il particolare passo che ricorrerebbe identico nei due autori è proprio quello riportato da Zampanò:
…la verdad, cuya madre es la historia, émula del tiempo, depósito de las acciones, testigo de lo posado, ejemplo y aviso de lo presente, advertencia de lo por venir.
…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.
Il narratore mette, dunque, a confronto Menard e Cervantes e rileva alcune differenze: mero elogio retorico della storia in Cervantes vs storia madre della verità in Menard (“non ciò che avvenne ma ciò che noi giudichiamo che avvenne”); uso disinvolto dello spagnolo corrente nella propria epoca in Cervantes vs stile arcaizzante e affettato, “straniero” in Menard.
I testi in realtà sono identici, e Borges aggiunge – è la chiusa:
Pierre Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l’arte incerta e rudimentale della lettura: la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee. Questa tecnica, di applicazione infinita, ci invita a scorrere l’Odissea come se fosse posteriore all’Eneide, e il libro Le jardin du Centaure di Madame Bachelier, come se fosse di Madame Henri Bachelier. Questa tecnica popola di avventure i libri più calmi. Attribuire a Louis Ferdinand Céline o a James Joyce l’Imitazione di Cristo, non sarebbe un sufficiente rinnovo di quei tenui consigli spirituali?
È il fantastico di matrice borgesiana: Borges sta codificando quella che poi sarà definita “letteratura finzionale”[7].
La messa in pratica di tale metodo ha come esito sia la creazione di un mondo fittizio in cui costantemente il reale si insinua sia, viceversa, un analogo movimento sotterraneo del fittizio verso il reale che produce lo stordimento del lettore, la sua vertigine. L’effetto-vertigine è il naturale portato di una fuga di piani infinita – di una moltiplicazione all’infinito dei piani narrativi – in cui ogni livello rimanda a se stesso e, duplicandosi, all’infinito appunto[8]:
Perché ci inquieta il fatto che la mappa sia compresa nella mappa e le mille e una notte nel libro delle Mille e una notte? Perché ci inquieta che don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte, e Amleto spettatore dell’Amleto? Credo di aver trovato la causa: tali inversioni suggeriscono che se i personaggi di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere fittizi.
Prima di tornare a Zampanò, è forse necessario trattenersi ancora su questo punto, facendo un piccolo passo indietro: in “Pierre Menard, autore del Chisciotte” Borges introduce il confronto tra Cervantes e Menard affermando:
Sere fa, sfogliando il capitolo XXVI (non tentato dal nostro amico), riconobbi il suo stile, e quasi la sua voce, in questa frase eccezionale: las ninfas de los ríos, la dolorosa y húmida Eco[9].
Il “metodo Menard” pone dunque al centro la figura di Eco: Borges ha inquadrato il problema della citazione e dell’intertestualità nella cornice acustico-mitologica della ninfa Eco; Zampanò-Danielewski, in apparente perfetta continuità, sembra farsi plagiario della riflessione borgesiana su Eco e, tuttavia, con l’accento posto sull’eco imperfetta sta gettando la premessa per uno slittamento dal piano della citazione a quello della narrazione.
Per il momento manteniamo l’idea che nel ri-teorizzare il metodo finzionale Danielewski sta consegnando nelle mani del lettore la bussola con cui orientarsi nel testo. Tra poco vedremo come la “forma Borges” è stata ripensata e sostituita dalla “forma Danielewski”.
La nota 49 è commentata dalla nota 50 in cui prende la parola Johnny Truant[10].
Johnny, che apparentemente fraintende il gioco di Zampanò, ne approfitta per un’ulteriore messa in ridicolo del vecchio – fin dalle prime battute l’ha accusato di avere inventato tutto, di aver scritto un testo senza senso –, dichiara l’impossibilità di individuare la “squisita variazione” tra Menard e Cervantes, e indica la conoscenza di seconda mano che Zampanò ha delle sue fonti, cattiva conoscenza che egli vorrebbe nascondere ma che, nel tentativo di celare, in realtà rivela:
Come cazzo si fa a parlare di “squisita variazione” quando i due passi sono in tutto e per tutto identici?[11].
Johnny sbotta, non riesce a cogliere la differenza, attribuisce la propria incapacità all’ora tarda, alla scarsità di luce, al sonno accumulato, per poi affermare con la solita deviazione – un ripiegamento, cui ha ormai abituato i suoi lettori:
[…] anche se, lasciatemelo dire, a starmene qui seduto solo ad ascoltare nient’altro che questo strano mormorio simile alla preghiera di un penitente – sai che è una preghiera ma non capisci cosa dice – o a una spietata maledizione, e sentire che in questo momento qualcosa di male sta penetrando nel mondo anche se non riesco a capire le parole […] Ho perso il filo, non riesco neanche a finire la frase, non saprei come … […] Di una cosa però sono certo: sono solo in un territorio ostile e nemmeno so perché è ostile o come fare a mettermi in salvo […] e in tutto questo la mia Guida amaurotica, quel demente, se la ride, anzi sghignazza, smarrito nella sua personale litania di autocitazioni, completamente fuori di sé e pure cieco.
Di chi sta parlando Johnny Truant quando usa l’espressione “Guida amaurotica”, di Zampanò o di Borges?
La reazione di Johnny sembra una negazione del metodo Menard, tuttavia abbiamo visto come tale metodo ponga al centro la figura di Eco: i tentativi di Truant di sminuire l’argomentazione di Zampanò sono allora meri depistaggi e non fanno che rafforzare l’impressione di trovarci di fronte a una chiave di accesso alla Casa.
Il capitolo prosegue con la citazione di Hollander autore di un saggio su Eco – il riferimento bibliografico, tra i numerosi fittizi, in questo caso è reale. Si aggiunge un nuovo tassello, si passano in rassegna alcuni esempi di eco con funzione parodica, esempi di “trasfigurazione testuale” (CdF p. 47) cui fa seguito una fitta trama di citazioni che scaturiscono l’una dall’altra a punteggiare il sottile gioco argomentativo di Zampanò – dall’ebraico, da Milton, da Wordsworth, da Innis: la “Parola di Dio” è “il supremo Big Bang”, Eco è “Figlia della voce di Dio” e Dio è Narciso. La teoria creazionistica della parola (Dio è logos e Adamo dà i nomi alle cose) è sottoposta a una revisione totale: Zampanò-Danielewski sta operando una sostituzione, uno slittamento: alla parola divina che crea è subentrato il potere creativo, divino anch’esso, dell’eco imperfetta – del vivo suono di lei – quel suono capace di raccontare al contempo la stessa storia e una storia più significativa, di ri-creare un intero universo, anche se questo universo sembra il medesimo.
Il capitolo V continua con l’analisi dell’eco come fenomeno acustico.
Anche in questo caso, la premessa va sottolineata: “gli echi rivelano anche assenza”, afferma Zampanò, l’eco può prodursi solo nel vuoto e il vuoto “non fa che accentuare l’inquietante sensazione di alterità prodotta da ogni eco”.
Si tratta del naturale sviluppo del ragionamento sulla Eco del mito: dal piano della parola ci si sta spostando su quello della realtà. Zampanò si sofferma sui concetti di luce acustica e contatto acustico che offrono la possibilità di “vedere sentendo” a quegli esseri viventi dotati di dispositivi di ecolocazione, preclusi agli esseri umani, e alla formula della frequenza di risonanza laddove si renda necessario quantificare, come nella Casa dei Navidson, il ritardo nella trasmissione del suono.
Conclude Zampanò[12]:
Il mito dipinge Eco come oggetto di brama e desiderio. La fisica la rende soggetta alla distanza e alla natura dello spazio. Per quanto concerne la ragione, il sentimento, entrambe le posizioni sono corrette. E là dove non c’è Eco, non c’è nemmeno un’idea di spazio o amore. C’è solo silenzio.
In definitiva: dove non c’è eco non c’è mondo, dove non c’è Eco non c’è letteratura.
Fisica e linguistica finiscono per essere così le chiavi di accesso alla Casa, i cui elementi costitutivi sono un impossibile impasto di materia extraterrestre e interstellare (CdF p. 393, nota 348), di deuterio e rocce metamorfiche, di morfemi, strutture superficiali e strutture profonde, concetti, questi ultimi, che pertengono al campo della linguistica (CdF p. 401).
Il capitolo V si chiude con un ritorno alla narrazione. Si tratta di un punto particolare del libro: l’Esplorazione A della Casa, quella che precede la serie delle Esplorazioni 1-5 – una soglia ritardata – è il primo tentativo di sondare il misterioso corridoio improvvisamente apparso tra la camera dei genitori e quella dei bambini. Il tentativo è effettuato di notte dal solo Navidson all’insaputa della moglie Karen. Poco dopo essersi inoltrato nel corridoio, Will perde il senso dell’orientamento: è soltanto grazie alla voce della figlia Daisy, al suo riverbero, che riesce a ritrovare la strada per raggiungere il salotto. Il mattino seguente la bambina vorrebbe ripetere il gioco notturno, “il gioco del doio”, che ha fatto con il papà. Navidson resta stupito, poi le fa il solletico e la bambina ride, dimenticando la domanda. Il capitolo si chiude così (CdF p. 79):
Nonostante la formidabile quantità di materiale generato dall’esplorazione A, nessuno si è mai preso il disturbo di riflettere sul gioco che Daisy voleva fare con il padre, forse perché tutti hanno dato per scontato che si trattasse di un neologismo infantile. Se non fosse che “doio” richiama subito alla mente un’altra parola, “corridoio”. Anzi, a dire il vero, ne è l’eco.
L’Esplorazione 5, l’ultima esplorazione, è perfettamente simmetrica all’Esplorazione A, la prima: “No one should brave the underworld alone”, recita l’esergo di Poe. Eppure Navidson è di nuovo solo, è attratto irresistibilmente dalla Casa e dal corridoio e si è dotato di una singolare attrezzatura: macchine da presa di differenti tipologie, pile, pellicole, rullini, una mountain bike, un libro.
Il cuore dell’Esplorazione 5 è la scena raffigurata sul retro di copertina, una scena che richiama l’“Introduzione” di Fuoco pallido di Vladimir Nabokov, quando Kinbote ricorda di aver visto Shade bruciare le minute del poema:
“in una tersa mattina, bruciarne una bella pila nel fuoco pallido dell’inceneritore, dinanzi al quale egli stava immobile, la testa china, simile a una prefica silente tra le nere farfalle, portate dal vento di quell’autodafé casalingo[13]”.
Nel ventre della casa, oltre il corridoio, si sta manifestando l’orrore: non c’è più l’infinita e impossibile scala a chiocciola dell’Esplorazione 4, ma un sentiero liscio e in pendenza che trascina Navidson sempre più in basso. Tutto è buio, freddo, interminabile: Will finisce per trovarsi su una piattaforma sospesa sull’abisso dell’assenza dello spazio-tempo, l’unica possibilità di non morire assiderato è usare dei fiammiferi che ha con sé, ma i fiammiferi stanno finendo e l’ultimo viene impiegato per bruciare le pagine del libro: è così che Casa di foglie diventa cenere via via che la lettura procede. L’immagine usata da Nabokov è dunque messa al servizio di quel procedimento che Borges analizza nelle “Magie parziali del «Don Chisciotte»”: Danielewski è ritornato a Borges, al Borges di Altre Inquisizioni, e sta utilizzando il metodo operante nel Don Chisciotte, nel Ramayana, nelle Mille e una notte, sta cioè riproducendo l’effetto-vertigine, quel movimento dal reale al fittizio, di cui si è detto, con tutto il carico di orrore che tale movimento porta con sé.
Ma c’è di più: è il momento di ritornare alla questione dell’eco imperfetta e tentare un’ipotesi su come questo metodo dia forma a Casa di foglie.
Si è detto, all’inizio, delle lettere di Pelafina: la sua è la voce dell’amore perduto e della follia, dell’atrocità e della colpa, della spietata lucidità e della violenza, della nostalgia straziante. Ma quella della madre di Truant è anche una voce ipercolta e ironica, carica di quell’ironia che, in gradazioni diverse, caratterizza sia Zampanò sia Truant. Nella missiva datata 27 aprile 1987 Pelafina, che sospetta che le lettere al figlio siano censurate dal direttore dell’Istituto o addirittura non consegnate a Johnny, offre la chiave per decifrare i messaggi successivi: “usa la prima lettera di ciascuna parola per formare le parole e le frasi successive”. E infatti la lettera successiva, quella dell’8 maggio 1987, presenta due livelli: un livello di superficie, apparentemente privo di senso, e un livello più profondo che ha con il primo un rapporto tale per cui il messaggio nascosto è l’eco del messaggio superficiale. Il lettore legge la prima lettera di ogni parola e spesso la parola di superficie anticipa quanto sarà riverberato dalla parola segreta. Il messaggio di Pelafina è una richiesta d’aiuto, un grido – la sua eco – che fa luce sull’incubo del corridoio buio dell’Istituto. Applicando lo stratagemma di Pelafina ad alcune missive precedenti – va detto che questo non accade in modo sistematico in tutte – il lettore potrà sentire anche l’eco di un’altra lettera, datata 5 aprile 1986, in cui leggiamo:
[…] zelanti, assistenti maleducati, pasticche anonime, noia orribile? Così ho improvvisato, ho agito, in parte evitando rogne di utilità totalmente oscura? Che gioco è questo? Non è un gioco ma un casino mostruoso, una parodia dei tempi che corrono, i miei tempi.
Utilizzando le prime lettere di ogni parola, l’eco ne è: “Zampanò chi hai perduto?”.
Se si estende il “gioco del doio” all’intero testo, se lo si ricerca non solo nell’ambito della citazione e del ripensamento del “metodo Borges”, ma lo si fa operare anche sul piano della forma, ne risulterà allora che nella voce di Truant potrà essere sentita l’eco di quella di Zampanò, in quella di Zampanò l’eco di quella di Navidson e via via fino a Pelafina. Tutte le voci sono l’una l’eco imperfetta dell’altra, tutte le voci stanno narrando la stessa storia, ma ogni voce carica questa storia di sfumature differenti – dolore, accusa, sarcasmo – e questa storia, che si dissolve tra le nostre dita nel fuoco pallido del nulla, è vertigine e orrore.
Anna Di Gioia
[1] Questo testo è il tentativo di dare forma scritta alla presentazione del libro Casa di foglie, tenutasi il 17 gennaio presso la libreria Wojtek. In quell’occasione ero affiancata da Antonio Esposito, caporedattore della rivista «Grado Zero» e editor della casa editrice Alessandro Polidoro Editore. L’analisi di Casa di foglie nasce quindi da quel primo momento di confronto con Antonio e con le persone presenti in libreria quella sera, che con le loro domande hanno stimolato le mie riflessioni anche nei giorni successivi, facendo sì che il libro continuasse a risuonare nella mia mente.
[2] Mark Z. Danielewski, Casa di foglie, 66thand2nd, 2019 (da ora Cdf), p. XVII.
[3] CdF, p. 388-389.
[4] Prosa saggistica, spinta digressiva, ironia e piglio narrativo-descrittivo sono la cifra della sua voce.
[5] L’una legata alla figura di Narciso e riportata nelle Metamorfosi di Ovidio, l’altra legata allo smembramento e al dio Pan in Longo Sofista.
[6] Cdf, p. 45.
[7] Si veda Alfredo Zucchi, “Lo scrittore microscopico”, «Cattedrale osservatorio sul racconto», 27\07\2017 https://www.osservatoriocattedrale.com/riflessioni-in/2017/7/27/lo-scrittore-microscopico-di-alfredo-zucchi).
[8] J.L. Borges, “Magie parziali del «Don Chisciotte»”, Altre inquisizioni, Adelphi 1996 [2000], 56-59.
[9] J.L. Borges, Finzioni, Einaudi 1955 [2015], p. 42.
[10] La voce di Johnny sembra sempre opporsi a quella di Zampanò, farle resistenza, impuntarsi su un piano volutamente antagonistico. Colloquiale, prosastica ma con improvvise, intensissime, impennate poetiche, questa voce si smorza nella prospettiva ironica che sempre assume, nella parodia di se stessa che sempre la caratterizza e presenta la stessa valenza del tono ironico e parodiante di Zampanò, restituendo in definitiva al lettore la percezione di un’identica voce.
[11] CdF, p. 45.
[12] CdF, p. 49.
[13] V. Nabokov, Fuoco pallido, Adelphi 2002 [2015], p. 16.
Nobody Wants This è una boccata d’aria fresca nel panorama delle commedie romantiche. Perché la…
#gradostory Gomito alzato, pistola in pugno. Sguardo fisso all’orizzonte – chiuso. Una flotta di navicelle…
#gradostory Somewhere Only We Know, canzone pubblicata dalla rock band britannica Keane nel 2004, è…
Condominio Ogni mattina, alle 4.50, l’inquilino dell’interno 6 prepara il caffè in cialda. Dal momento…
Quest’estate sono entrato in una libreria con la semplice intenzione di dare un’occhiata in giro,…
L’uomo davanti a me s’infila il dito indice nel naso. Avvita, avvita, avvita, fin quando…