Benvenuti nei bassifondi di Gotham City

L’appartamento di Arthur Fleck si trova in un condominio disgustoso. Glielo dice Sophie Dumond, nel loro primo incontro in ascensore, che in quel condominio risiede insieme alla figlia: «Questo palazzo è orrendo, vero?». Tecnicamente, questa non è un’affermazione, ma glielo sta chiedendo. In pratica, non c’è bisogno che Arthur risponda; la domanda è retorica, e la risposta la sappiamo noi e la sanno anche loro.

Nell’appartamento di Arthur

Lo sappiamo fin da quando entriamo nell’edificio, scarsamente illuminato, e seguiamo Arthur nella casa in cui vive con sua madre, Penny. La carta da parati con disegno a griglia, in salotto, è ingombrante. L’arredamento è fatto di robaccia che probabilmente era vecchia già per gli anni Ottanta. Persino i tappeti, nella stanza in cui guardano la tv, sono grossolani. Nessuno potrebbe essere felice in un appartamento come quello. E Arthur, in effetti, non lo è. Ma quanto è responsabile quello stesso appartamento, nel suo immiserimento morale, e più in generale l’intera città? Molto, sembrerebbe dirci il film.
La popolazione di Gotham City, dalle masse al singolo individuo, si uniforma all’architettura circostante, in una tangibile fagocitosi che ne fa tutt’uno – avete presente Penny Fleck, appoggiata allo schienale del letto, nella sua camera? I cittadini di quest’isterica metropoli ne subiscono la fame, la povertà, la delinquenza, diventando essi stessi più affamati, più poveri, più delinquenti, e incrementando il livello di drammaticità dei problemi urbani. In effetti, non si può dire che non sia la stessa città a stringere la morsa su Arthur, accompagnandolo nella sua deriva criminale.

Gotham City puzza

La prima volta che incontriamo Arthur Fleck, è seduto davanti a uno specchio preparandosi per il lavoro: agitare un cartello pubblicitario lungo la strada in divisa da clown. Tutt’intorno, lo smog fuoriesce dai tombini. È una delle poche volte in cui si riesce a (intra)vedere il cielo di Gotham City e la cima dei grattacieli, dal basso dei marciapiedi. Un’altra volta, è nello studio televisivo che ospita il programma di Murray Franklin, con uno scorcio della città attraverso la vetrata alle sue spalle: ma i grattacieli, qui, sembrano finti, e magari lo sono davvero, come quei fondali degli odierni talk show americani. In apertura, mentre Arthur è intento a truccarsi, un notiziario annuncia fuori campo che lo sciopero dei rifiuti è giunto al diciottesimo giorno. La città produce diecimila tonnellate di immondizia ogni giorno, con la conseguenza che anche i quartieri migliori ormai sono degradati. Una serie di commentatori aggiunge: «Non c’è neanche più una strada in cui puoi camminare senza vedere immondizia ai lati», «È un porcile!», e «La puzza è insopportabile». Non manca molto da qui a quando Arthur prenderà a calci cumuli di rifiuti in un vicolo: sembra di sentirla davvero, quella puzza.

La città in stato di abbandono

Neppure i mezzi di trasporto fanno eccezione. Seduti sui sediolini dell’autobus, si direbbe che i passeggeri non riescano a veder fuori dai finestrini, tanto sono opachi, o ricoperti dai graffiti. Gli stessi che compaiono sulle pareti dei vagoni della metropolitana, dove l’elettricità, come all’Arkham State Hospital, può funzionare a intermittenza. E certamente si tratta di una scelta stilistica, con la luce che va e viene nei momenti in cui il folle dentro Arthur salta fuori, ma che ha inevitabilmente importanti conseguenze sul contenuto. Non stupisce che, in un simile clima di incuria verso i luoghi pubblici, i fondi per i servizi assistenziali siano stati tagliati. Quello che stupisce è che non si vedano mai, nel dettaglio, indigenti o mendicanti per le strade, senzatetto, scene di povertà in generale; non che questa sia una critica, beninteso, ma una constatazione: del fatto che, se Gotham City agisce come un character nel film, è essa stessa incaricata di personificare lo squallore.

Tra horror e fantascienza

Nell’appartamento di Sophie entriamo molto dopo, verso la fine, e ne vediamo assai poco, ma si distingue chiaramente un televisore acceso e apparentemente non funzionante: tutto quello che riproduce è il cosiddetto rumore bianco, con lo schermo grigio e un suono costante. Si tratta di uno stilema tipico del cinema horror, ed è l’unica incursione che il film compie in questo genere, dal punto di vista della comunicazione mediatica. Altrove, infatti, il ruolo che giocano i notiziari fa sì che la televisione si schieri nettamente in campo fantascientifico. Subito dopo l’omicidio del presentatore Murray Franklin, dal suo salotto si passa all’inquadratura di un mezzobusto che ne annuncia la morte in diretta tv. Da un punto di vista narrativo, è una scena inutile, giacché noi spettatori abbiamo già visto Murray morire. Ben presto, però, l’inquadratura si allarga a mostrare tanti altri schermi che diffondono la notizia dei disordini crescenti in città. I telegiornali, in questo momento esatto del racconto, servono a misurare la portata di quanto è appena avvenuto, ad affermarne la dimensione collettiva, a proclamare l’appartenenza al mondo del reale. Se una cosa è tanto importante da essere detta alla tv, allora vuol dire che avrà effetti sensibili su tutta la comunità.

I film nel film, il cinema nel cinema

C’è soltanto un altro medium, nel film, abbastanza importante da essere pluricitato, ed è il cinema, nella sua valenza di discriminante sociale. Quando Arthur si intrufola tra l’alta borghesia per incontrare Thomas Wayne, il film che stanno proiettando in sala è Tempi moderni di Charlie Chaplin, di cui gli astanti ridono, abbondantemente, e forse senza percepire che Charlot fatica a stare a galla e a tenersi un lavoro, esattamente come i manifestanti fuori alle mura dell’edificio. Nondimeno, il tema musicale del film è Smile, che ricorda molto il “Put On a Happy Face” che Arthur scrive sullo specchio del suo camerino. L’intero film rincorre una serie di riferimenti cinematografici che ne costituiscono il tessuto visivo e il sottotesto, da Taxi Driver e Re per una notte di Scorsese a Blow Out e Zorro mezzo e mezzo – e poi, l’Arthur Fleck spaesato seduto in poltrona allo show di Robert De Niro non ricorda il Joaquin Phoenix ospite di David Letterman dieci anni fa?
Nel finale, quando la metamorfosi nel più celebre villain DC è ormai completa, e Arthur si alza in piedi sull’automobile, con la folla devastatrice attorno a lui, alle sue spalle si staglia l’insegna di un cinema a luci rosse. È l’estrema scissione della settima arte in due poli opposti: da un lato la crème de la crème che esulta per un classico conclamato, e dall’altro la plebe esplosa in una furia omicida, che si becca la sua degenerazione nella forma meno artistica, mentre poco distante si consuma l’omicidio dei genitori del futuro Batman, in un vicolo sporco e buio, proprio all’uscita di un cinema.
Questo ricorderemo dell’impianto scenografico di Gotham: i suoi bassifondi, e la scalinata su cui si esibisce la danza folle di Joker.

Napoletano di nascita, correva l'anno 1990. Studia discipline umanistiche e poi inizia a lavorare nel cinema. Nel frattempo scrive, scrive, scrive sempre. Ama la musica e la nobile arte delle serie tv, ma il cinema è la sua prima passione. Qualunque cosa verrà in futuro, non abbandonerà la penna. Meglio se ci sia anche un film di mezzo.

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