Nell’ambito delle celebrazioni per il settimo centenario della morte di Dante, la Salerno editrice ha pubblicato un’edizione della Commedia dantesca che, se da un lato anticipa l’attesissima edizione del poema sacro all’interno della NECOD (Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante), d’altro canto si presenta, fisicamente, in una dimensione più che tascabile: le tre cantiche, infatti, sono contenute in un solo volume (curato da Enrico Malato) affiancato da un altro minuscolo libro, che è la grande novità del prodotto editoriale: il Dizionario della Divina Commedia. Entrambi i volumi sono contenuti in uno splendido cofanetto. Con il suo poema divino Dante ha costruito il mito di se stesso e l’ha fatto in un momento della sua vita assai drammatico. Spesso il Sommo Poeta è stato associato alle altre due corone del Trecento (Petrarca e Boccaccio) ma dimentichiamo che, a differenza dei due colleghi, Dante non ha mai potuto appoggiare le sue carte sullo scrittoio per un periodo ragionevole, perché di scrittoi ne ha avuti tanti – tutti provvisori – e tante sono state le sue peregrinazioni dovute all’esilio, durante le quali, però, non è mai venuta meno la sua fierezza, che si è tradotta più volte in un netto rifiuto a chi gli chiedeva di tornare a Firenze – e va ricordato che, di tanto in tanto, non mancano iniziative promosse da amministratori locali, più o meno zelanti, che rivendicano la necessità di riportare le sue ossa a Firenze, come a voler sancire una riconciliazione tra il poeta e la sua città, una riconciliazione pur sempre postuma.
Se oggi la Commedia sta a identificare l’identità linguistica e culturale di un paese, fino a essere fagocitato nei (e dai) programmi ministeriali e, di conseguenza, nelle ore di italiano, non senza fretta e approssimazione, non sarà mai inopportuno ricordare che in realtà, nel Trecento, il poema dantesco, proprio per la lingua adottata, era quanto di più rivoluzionario potesse esistere. Non a caso nelle Egloghe Giovanni del Virgilio, con pre-umanistica foga, gli fa capire che se quel preziosissimo interlocutore avesse composto le sue liriche in latino, il maestro bolognese si sarebbe senz’altro fatto promotore di un’incoronazione poetica (evocata, peraltro, dallo stesso Dante nel XXV del Paradiso) nella città felsinea, che sempre ritorna nella memoria dantesca. La città delle Due Torri ha ospitato il poeta nei suoi anni giovanili e proprio lì, il ventiduenne fiorentino giunto a Bologna per frequentare (a modo suo) l’Università deve essersi divertito parecchio a scrivere le sue (prime?) poesie, una delle quali addirittura trascritta in un memoriale bolognese del 1287, vale a dire il sonetto della Garisenda. Resta da chiedersi se il volgare bolognese sia stato frutto di traduzione da parte del copista Enrichetto delle Querce o se Dante l’avesse composta di suo pugno in bolognese: quest’ultimo caso non mi stupirebbe, perché nel più tardo De vulgari eloquentia Dante non si limita a una analisi del volgare bolognese ma, addirittura, analizza, in un’ottica diatopica, le varie sfumature del bolognese citando specificamente i toponimi ai quali corrispondono le rispettive sfumature. Un ruolo di primaria importanza, dunque, quello del volgare bolognese, che mi induce a supporre che, evidentemente, Dante a Bologna c’è stato eccome. E la sua permanenza all’ombra della Garisenda non deve essere stata affatto effimera. Insomma, molte porzioni della selva, quella degli studi danteschi, non è stata (e, fortunatamente, non sarà mai) esplorata tutta. Un pretesto più che valido per viaggiare con Dante, come è stato fatto anche da tanti scrittori-critici della nostra letteratura, da Boccaccio fino a Pasolini.
Emanuele Cerullo
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