Le Nasse di Annarita Rendina
Le nasse che danno il titolo alla raccolta d’esordio di Annarita Rendina, licenziata per i tipi di Interno Poesia nel 2017, sono attrezzi da pesca con i quali è possibile ‘catturare’ i pesci che, attirati dall’odore delle esche, non riescono poi a liberarsi dalle maglie delle trappole marittime. Qui, le maglie che costringono la voce dell’autrice sono quelle della mancanza: c’è un lutto da elaborare, in queste pagine, quello di una figura paterna che al mondo dell’acqua – simbolo vitale per antonomasia, di nascita e rinascita – è strettamente legata, e anzi coincide con esso. Quella di Rendina – classe ’88, nativa di Monte di Procida, docente di materie letterarie e studiosa di scritture contemporanee – è poesia di mare; di un mare che si fa luogo di ricordi ma anche di consuetudini familiari. Il mare del viaggio delle grandi narrazioni epiche diventa qui un mare chiuso, uno spazio giornaliero al pari della casa e della cucina, al quale si legano ricordi del passato e gesti quotidiani, tutti scanditi però dall’ombra del genitore che insegna e tramanda questo legame antico.
Emersioni, 1
Il volto del padre, «affiorato come un tesoro / da quel bozzolo di foglie» (Ho tirato su la nassa, p. 15) sin dall’incipit del libro, riemerge di continuo dalle onde tra le quali si è costruito il rapporto tra i due, e che si riverbera ora nell’identità di gesti, azioni, persino modi di ‘possedere’ il mondo equoreo: per esempio «Io il mare / me lo porto in tasca / per i giorni disperati. / Lo chiamo per nome» (Io il mare, p. 20) sancisce una volta di più il legame con chi lo portava, allo stesso modo, tempo prima («Ma tu tiene ‘o mar / d’int’e sacche / e ‘o ssaje / comme pesa ‘a nassa / Quanno saglie n’terra», ‘O ssaje comme so’ fatta, p. 24). Addirittura, in una metamorfosi quasi dannunziana (di un d’Annunzio, verrebbe da dire, che all’autocompiacimento musicale sostituisce una volontà di salvataggio degli affetti nelle forme del ricordo e dell’esperienza comune), vediamo il padre assumere i contorni stessi del mare: «Le mani fluttuanti tra i capelli d’alga / suonavano note che viaggiavano più veloci / e il sorriso di perla / spariva come un barlume / inghiottito dalla conchiglia della bocca» (E furono poi i miei giorni migliori, p. 59).
Emersioni, 2
Il mare è dunque un mondo che Rendina conosce bene, una sorta di habitat naturale, ma che al tempo stesso stenta a riavvicinare dopo la pesante dipartita: «Con te è finito il mare. / Solo un breve cabotaggio / per giungere all’altro capo / del lenzuolo steso tra le acque» (Con te è finito il mare, p. 37); e ancora, «Ma è la fine del mare, del sogno, / s’allarga il giro di cabotaggio / eppure il mondo / pare una pozzanghera» (Posso pensarti solo contro sole, p. 50). Le navigazioni rendiniane, tutte condotte all’insegna del viaggio in coppia con la figura del lupo di mare di famiglia, non trovano più direzione né senso una volta esauritasi la possibilità di non affrontare il mare assieme; se prima il Golfo poteva essere spazio conosciuto ma sempre da scoprire e vastissimo, ora si riduce a «pozzanghera», a una fanghiglia urbana che dell’acqua vitalistica ha solo un vago aspetto. Al tempo stesso, la rivendicazione del proprio attaccamento a chi non c’è più supera i consueti limiti acquatici, e spinge a cercare paragoni con elementi della terra, come nel caso del muschio: «Ti appartengo / come il muschio alla pietra / e così mi tengo a te» (Gli ultimi giorni con te, p. 35).
Qualcosa di atono
Quando, nell’ultima sezione, si passa dal lamento all’elaborazione vera e propria, si creano anche le condizioni per un nuovo dialogo con il grande assente; e non è forse un caso che si installino in questi testi ricordi montaliani, come i «fili di tabacco» di Intreccio altre illusioni (p. 58) o la «tenda ubriacata di scirocco» (p. 60) dalla quale torna ad arrivare una ben nota voce. Ed è anche in virtù di questa nuova coscienza del trapasso che Rendina può allargare la propria visuale all’intero mar Mediterraneo, cimitero a cielo aperto per centinaia di naufraghi negli ultimi anni, e che viene visto «tappeto / di schiene riverse e braccia molli», dal quale «non arrivano / più in fretta le voci dei naufragati / insabbiate come sono nella loro / comune fossa sottomarina» (Il mediterraneo è un tappeto, p. 62).
Solo alla fine di queste Nasse Rendina può riconoscere il superamento – il superamento, non l’annullamento o la rimozione; la citazione di Barthes in epigrafe non lascia adito a dubbi sulla persistenza indelebile di certe mancanze – della perdita («Sono uscita dalla nassa / ho mangiato il pane / che lasciavi cadere dal tuo scafo», p. 65) e diventare, postrema eredità genitoriale, essa stessa parte del mare, per rimettersi in cerca della trama esistenziale disposta da chi l’ha avviata, con amore, lungo le correnti della vita e del Golfo: «Sono ora più simile / a uno dei tuoi pesci, / la pelle a scaglie, a maglie / di una trama che stento a ricomporre. / Trovarne il disegno / sarà andare alla ricerca / dell’ultimo dei tuoi tesori, / quello che non hai mai nascosto» (ibidem).
Il dialetto delle nasse
Prima prova di grande impatto emotivo, Nasse si presenta in una doppia veste linguistica, dato che al più gettonato italiano si accompagna un pugno di testi in dialetto napoletano. Ed è forse in questi momenti, dove il suono della casa e del parlato d’ogni giorno rende ancor più carnale il racconto della relazione familiare, che il libro funziona meglio: ne sia esempio finale, per chiudere leggendo ancora una volta i versi di Rendina, la splendida Je so’ cresciuta chiena ‘e frate: «Co’ bben annascuso / dint’ ‘e sacche / alluccavo cchiù fforte / pe’ nun sentì ‘o mare / pe’ nun sentì ammore / ma è arrivat’ ‘o stess / ‘sta burriana dint’ ‘o core» (p. 18). Dove la ribellione alla famiglia numerosa si accompagna alla consapevolezza del bene rappresentato dalla stessa, e delle conseguenze dolorose del suo sfaldarsi, sublimate e raccontate guardando verso il mare.
Giuseppe Andrea Liberti