Racconto: Gioia – Sara Gavioli
Le era subito sembrato un bravo ragazzo: pulito, ben pettinato, vestito bene. Non aveva esitato a pagare per entrambi, all’arrivo del conto, e la conversazione durante la serata era stata piacevole. Avevano discusso di lavoro, famiglia, vecchi ricordi. Persino il posto che aveva scelto non era male: un ristorante semplice ma elegante, per giunta accanto a dove lei viveva. Nonostante questo, non era riuscita a parlargli di Gioia.
Era convinta di poterlo fare. Le pareva diverso dagli altri uomini conosciuti negli ultimi tempi, che appena sentivano parlare della sua bambina scappavano a gambe levate. Come se una donna giovane non potesse cercare un compagno, pur essendo già madre.
«Vuoi salire da me?» gli chiese, quando furono in strada. «Devo dirti una cosa.»
«Certo, volentieri.»
Non sembrò neppure sorpreso o preoccupato. Forse, vista la bella serata, credeva fosse solo una scusa per trascinarlo a letto. Decise di perdonare quel suo probabile pensiero, perché in fondo ne era compiaciuta. Lo prese per mano e lo guidò verso la via giusta; una volta di fronte al portone, si sentì in dovere di introdurre l’argomento.
«Sai, c’è qualcosa che non ti ho detto, di me. Ed è abbastanza importante, non so se ti andrà bene.»
Lui la scrutò. «Qualcosa di grave?»
«Dipende dai punti di vista, penso. Molti uomini non gradiscono.»
«E cosa sarebbe?»
«Ecco… Non so bene come dirtelo, ho paura di spaventarti.»
Le accarezzò i capelli con un gesto lieve. «Tranquilla. Mi piace molto stare con te, puoi dirmelo. A tutto c’è rimedio, no? Che sarà mai?»
«Va bene, te lo dico. In casa… ecco, non sono da sola. C’è qualcuno che mi aspetta.»
Lui allontanò la mano. «Un marito?»
«No, no! Oh no, assolutamente.» Risero insieme, con un po’ d’imbarazzo. «Sono una persona come si deve, non preoccuparti. Niente del genere.»
«Ok, meno male. Allora chi…»
«Si chiama Gioia» disse lei in fretta. «È la mia bambina.»
«Ah.» Ci fu un momento di silenzio, ma poi lui sorrise. «Una bambina non dovrebbe mai venir vista come qualcosa di terribile, secondo me.»
«Mamma mia, che sollievo! Non sai quanto ero impaurita. Anch’io sono stata bene, mi sarebbe dispiaciuto un sacco dover…»
«Figurati. Certo, è una cosa importante, ma siamo solo usciti a cena. Direi che vedremo. Grazie per avermelo detto, comunque. È giusto.»
«Non vorresti conoscerla?»
Rimase un attimo sospeso, pensandoci. «Va bene» rispose alla fine. «Non vedo perché no.»
«Che bello.» Lei gli prese di nuovo la mano e infilò l’altra in borsa per cercare le chiavi. «Dai, sali un minuto, così te la presento.»
«Ma… quanti anni ha?»
«Ha soltanto sei mesi.» Trovò il portachiavi e tentò di aprire il portone con una mano sola, non ci riuscì, si separarono e finalmente entrarono nell’androne. «È molto piccola.»
L’espressione sulla faccia del ragazzo era strana.
«Te ne stai pentendo?» gli chiese.
«No, no. Nessun problema.»
«Perfetto. Allora andiamo.»
Entrarono in ascensore e lì rimasero in silenzio fino al quinto piano. Sulla porta dell’appartamento, mentre gli dava le spalle, lo sentì chiedere: «Ma l’hai lasciata da sola?» Decise di ignorare la domanda.
«Benvenuto in casa mia» disse, e con un gesto lo invitò dentro.
L’ingresso era al buio. Lui fece qualche passo e si guardò intorno; ora la sua perplessità era evidente. Si voltò a guardarla, aspettando istruzioni, confuso.
«Vieni, vieni. Fa’ piano, però. Sta dormendo.» Gli afferrò la mano e lo tirò verso la cameretta.
Si trattava di una piccola stanza quadrata. Dentro, al centro, c’era solo la culla, piena di tendine e sonagli appesi. L’unica luce fievole veniva da una lampada montata a muro. Nella penombra, i contorni del giaciglio si distinguevano appena.
«Non sono sicuro di capire» mormorò lui, osservando la scena. «Hai detto che ha sei mesi, giusto?»
«Sì, e il suo nome è Gioia. Entra pure, però…» Gli fece cenno di star zitto, con un dito davanti alle labbra. Poi gli sorrise, impaziente, e lo spinse piano per farlo entrare nella camera. Ci fu un po’ di resistenza.
In effetti, con quella fronte corrucciata non era così bello come aveva pensato prima. Andava sempre nello stesso modo e le dispiaceva: il momento in cui le loro fronti si corrugavano giungeva puntuale e non riusciva a capire perché. Gioia era bellissima, non avrebbe di certo potuto frequentare un uomo che non l’apprezzasse.
Il ragazzo si decise ad avvicinarsi alla culla. Lo fece lentamente, come se temesse di venire attaccato da qualcosa nel buio. Si chinò e scostò la tendina, rimase in quella posizione. Dopo si girò e la sua fronte era ancora più increspata.
«Ma è una bambola» disse.
Lei fece un sospiro. «Lo sapevo. Tutti uguali.»
«Cosa? Senti, sei sicura di star bene? Questa è chiaramente una bambola, io… non capisco.»
«Come ti permetti?» Gli si avvicinò, mentre la rabbia le montava dentro. Di nuovo, ancora, come sempre. Non ne poteva più. «Come ti permetti di insultare la mia bambina?»
«No, scusami, non voglio insultare nessuno, però…»
«Silenzio!» urlò lei, e quel ragazzo che ora sembrava tanto piccolo si zittì davvero e si strinse nelle spalle. «Non hai nessun diritto di giudicarmi.»
«Aspetta, aspetta, che cosa?»
Lei si avvicinò ancora. «Pensi di capire tutto, eh? Riesci a immaginare il dolore di una madre? Riesci a immaginarlo, tu? Eh? Allora?» La voce saliva di tono man mano. «Vorresti dirmi che puoi capire come ci si sente?»
«Porca miseria, no, io non…» Lui agitava le mani, per parare i colpi che prevedeva. «Non so di cosa stai parlando, tu sei pazza!»
«Sempre così» disse lei. Allungò un braccio e afferrò l’accetta, che stava poggiata in un angolo, nascosta dal buio. «Sempre così. E dire che io ci provo. Lo capisci? Lo capisci, idiota?»
«No, stiamo calmi. Stiamo molto, molto calmi…»
Provò a sferrare un colpo, ma lui schivò. Lo vide frugarsi nelle tasche, probabilmente per cercare il cellulare, e tentò di nuovo di colpirlo.
«È inutile, lo sai. È inutile!» gli gridò, reggendo l’accetta davanti alla faccia, e iniziò a piangere. Le lacrime scendevano senza controllo, perché era proprio dispiaciuta. «Bastardo!» gridò ancora tra i singhiozzi, e riprovò.
Il ragazzo era ormai con le spalle al muro. «Ascoltami, ok? Un momento, un momento solo. Ok? Ci sei?»
Lei rimase dov’era, dondolando un po’ sul posto.
«Bene. Senti. Io non intendevo offendere te o… la tua bambina. Gioia. È… è bellissima, sul serio. Sono… sono rimasto così colpito che…»
«Cazzate!» L’accetta si conficcò nel muro, a pochi centimetri da lui che cadde in ginocchio dalla paura.
«Mi dispiace!» le gridò. «Non volevo, qualsiasi cosa io abbia fatto non volevo, ma non tagliarmi! Ti prego!»
Non ci fu tempo per altre parole. Lui scattò in avanti, disperato, per cercare di fermarla. La spinse, la fece cadere all’indietro, iniziò a correre verso l’uscita. Lei si rialzò e lui intanto provò ad aprire la porta, senza successo. In preda al panico si voltò, cercò con gli occhi le chiavi da qualche parte, la vide che gli veniva incontro con l’accetta in mano.
«Mi hai deluso molto» gli disse, prima di conficcargli la lama nel cranio.
Poi, senza nemmeno ripulire, tornò nella camera. Si chinò ad accarezzare Gioia, che era immobile e fredda.
«Vedrai, piccola, ne troveremo uno che capisca» disse piano. «Dovessi ammazzarne mille.» Gioia continuò a fissare il soffitto, con quegli occhi di vetro, e non rispose.
Sara Gavioli