La fragilità di un tramonto di cartone
Tramonti di cartone è un’opera collettiva. Parole e immagini in una vigorosa comunione di intenti, dove ogni sensibilità artistica si muove verso la stessa direzione: dalla voce al silenzio. Percorrendo una strada molto simile i disegni di Federica Crispo, le foto di Erica Bardi, le poesie di Marcello Affuso e le parole di Valentina Bonavolontà e Giulia Verruti, attraversano spazi eterei e misteriosi, fatti di una quotidianità fissata con la lente d’ingrandimento, al punto di sembrare mostruosa, talvolta; talaltra mite e innocua.
La comunanza fra i vari artefici di Tramonti di cartone sembra perfino una compartecipazione percettiva. Difatti, già dall’introduzione di Sabrina Goglia si viene catapultati in un clima delicato e vigoroso al tempo stesso. Cercando di catturare il lettore con energica frenesia, rimbomba di parole allusive e citazioni interne, ed è, forse, come l’ultimo aggettivo prima del punto: straripante.
Le poesie di Marcello Affuso
La poesia di Marcello Affuso è incalzante, repentina, priva di segni o grammatica. Rifiuta le norme di una lingua per cercare di utilizzarla nella sua purezza. Le sue poesie sono fatte di immagine che si susseguono velocemente e ferocemente per poi confluire in un dolce finale. Si rivolge sempre a un’amata in prima persona. Le parla direttamente attraverso la poesia. Non la descrive ma la chiama. La cerca.
La musica c’è/stanno suonando la nostra canzone/ma tu dove sei?
Oltre alla ricerca della figura femminile c’è anche un’incessante ricerca di aiuto.
Salvami/ti prego/salvami ancora dalla mia guerra
Una verve pessimista permea ogni componimento, “grazie a te/ perfino io/ rimando/ a domani/ la morte”, tenendo dentro un’intimità celata, non resa accessibile al lettore. Nell’inseguire l’illeggibile lascia però dietro di sé i suoi riferimenti, su tutti Ungaretti; evocato, “bramando un porto sicuro ne ho trovati tanti sepolti”, e poi nominato apertamente: “Illuminato come Ungaretti dalla mattina”.
Nelle liriche si stacca frequentemente un ultimo versi (o degli ultimi versi), slacciati dal resto, come se dopo una rincorsa fatta di rapide immagini che si succedono, il poeta si soffermi un attimo e tenti di sintetizzare tutto in una manciata di parole. Oppure, attraverso queste ultime parole offre un senso nuovo all’intera poesia. E il caso di specchio rotto, dove la fine di un amore viene raccontata come una caduta a cui il poeta non accetta di tendere la mano. Tuttavia, nell’ultimo verso scrive “non questa volta”, come a tracciare una linea all’indietro che si incunea fra i versi precedenti.
Le altre voci della polifonia
Sulla falsa riga delle poesie, le prose cercano la metafisica ignorando le classiche strutture narrative. Difatti non c’è alcuna storia, ci sono impressioni, pensieri, frammenti. Pagine di un diario strappate a casaccio. La staticità delle storie viene contrappesata da una maggiore accuratezza nell’osservazione. Il precetto seguito appare quello di Flannery O’Connor: “più a lungo si guarda un oggetto e più mondo ci vedremo dentro”.
Gli ambienti sono concreti, comuni, quotidiani: stazioni, stadi, televisioni. Ma una quotidianità da cui incessantemente si cerca l’evasione, che sia materiale o spirituale:
che la calca mi riporti infine/tra le pieghe di un tempo più semplice/e i miei atomi/raggiungano ancora una volta/i tuoi palmi ruvidi/ nonna
Giulia Verruti in Albeggiare sembra ben descrivere il sentimento che percorre l’intera opera.
Ciao straniera, ti stavo aspettando
È lecito intuire che questa persona a cui ogni autore parla, a modo suo, non venga descritta in maniera diretta perché non si può; poiché in effetti non la conoscono ancora ma sanno che sta arrivando. Quello che si descrive qui è lo spasimante sentimento di attesa.
Come nella poesia, anche nelle prose è manifesto il frequente ricorso ai giochi di parole, anche in questo caso leggibili in una chiave inquieta e malinconica:
sarà che non siamo tagliati per vivere uniti ma tagliati e basta. Che da infinito a sfinito è un passo
In appendice troviamo una galleria di disegni (Federica Crispo) e di foto (Erica Bardi), le quali sembrano tracciare una sagoma; devolvere forma e sostanza alle sofferenti parole degli scrittori. Indugiando nella medesima atmosfera fluttuante tra reale e onirico, restituiscono al lettore un’immagine velata di ogni emozione, come a sottolinearne l’inevitabile caducità.