Esther Shapiro abbandona il quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, dove vive, e se ne va senza lasciare traccia. Succede in Unorthodox, la miniserie basata sull’autobiografia di Deborah Feldman disponibile su Netflix.
Esther è moglie diciannovenne in una società ultraortodossa chassidica. È una giovane adulta, cresciuta con l’imperativo di diventare madre e moglie. Al matrimonio arriva fantasticando una nuova vita, ma finisce per trovarsi in una casa dai confini labili, esposta alle diverse intrusioni fisiche quanto psicologiche della famiglia d’origine del marito Yanky.
Fin dai primi preparativi del matrimonio combinato, Esther chiede alla zia com’è il futuro marito. La risposta sentenzia: «Normale, come tutti i ragazzi».
Si delineano così fin dalle prime scene i confini di una società per la quale la normalità coincide con l’uguaglianza. La norma a Williamsburg è il livellarsi delle differenze individuali alla luce di caratteristiche uniformanti, sia religiose che tradizionali. I processi che spingono all’uguaglianza nel contesto sociale sono visibili attraverso alcune caratteristiche dei suoi abitanti, come gli abiti identici e divisi per genere, i boccoli e i cappelli neri per gli uomini, le parrucche simili per forma e colore indossate dalle donne non più nubili.
In un microcosmo sospeso dal resto dal mondo, dove la religione invade la sfera pubblica e privata, Esther, per tutti Esty, esula dall’uguaglianza e così inevitabilmente dalla normalità. Nonostante i diversi sforzi, è strana, come commenta l’arcigna suocera.
Cos’ha di strano Esty? Nulla, al netto di alcuni segni distintivi come l’amore per la musica e genitori bizzarri.
Il padre è per lo più rapito dall’alcol; la madre, invece, semplicemente non c’è. È tanto visibile nell’assenza (il ruolo materno è svolto dalla vecchia nonna “Babbi”), quanto invisibile nella presenza (si presenta al matrimonio combinato, ma resta ai margini prima di essere mandata via).
L’assenza è dovuta alla comunità ortodossa che ostacola il rapporto tra Esty e la madre, ma fuori da lì, quest’ultima diventa enzima di cambiamento, luogo di possibilità.
Nei condomini di Williamsburg, dove vedere una donna cantare in pubblico è considerato disdicevole, Esty coltiva la passione per la musica attraverso delle lezioni private di pianoforte. È da questo piccolo rifugio che si avvicina alla possibilità di cambiamento, a ciò che di diverso potrebbe diventare.
Esty s’identifica nelle scelte fatte per lei senza avere la possibilità di guardare alle diverse opzioni, come avverrebbe in una comunità diversa. Le è preclusa quella condizione che l’autore James E. Marcia, psicologo studioso dell’identità, definisce “stato di moratorium”, ossia la condizione rispetto alla quale l’individuo è impegnato nell’analisi delle alternative possibili senza aver assunto nessun impegno a lungo temine.
Nonostante ciò Esty resiste, e come dolorosamente accade nei tentativi di rapporto durante il primo anno di matrimonio, resta nelle promesse fatte. Abbandona le lezioni di pianoforte, segue le indicazioni per raggiungere un’intimità con Yanky.
Le regole del gioco si rompono quando, nonostante i suoi sforzi, la comunità, attraverso il marito, la considera inadeguata e spinge la coppia sull’orlo del divorzio, e all’allontanamento di Esty.
Parte così un processo di crescita che ha a che fare anche con il suo corpo. Passa da non averne consapevolezza (prima del matrimonio), ad averla senza possederne la proprietà (durante il matrimonio), fino a riconoscersene il diritto (a Berlino). Si riappropria della forma, che le viene tolta a partire del taglio dei capelli, decidendo gli abiti da indossare, togliendo la parrucca, coprendosi con un velo di rossetto.
Si tratta di una fuga? In realtà lei stessa sottolinea che non è una fuga abnegante, ma un semplice andar via, e infatti riesce a recuperare, senza negazioni (ma non senza difficoltà) le origini e le riformula a seconda della propria strada, della propria prospettiva.
Come in uno specchio, dal trovarsi “poco ortodossa” a Williamsburg, si ritrova “estremamente ortodossa” a Berlino, dove velocemente inizia un processo d’individuazione ed esplorazione che si realizza proprio attraverso le scelte che può fare. Il tipo di caffè da bere, chi frequentare, chi toccare, come e quando farlo.
Il suo coraggio e la capacità di mettersi in discussione sembrano insegnare ai più, attraverso Unorthodox, che solo nel recupero delle origini, quanto nella valorizzazione delle differenze, si può essere effettivamente liberi.
Benedetta Orlando
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