Hollywood è la nuova serie di Ryan Murphy, la seconda targata Netflix dopo The Politician. L’attesa era alta, visto che negli ultimi anni Murphy ha riscritto la storia della serialità hollywoodiana passando con disinvoltura da esperienze pop (Glee) a drammi seriali di grande qualità (American Crime Story, Feud), senza dimenticare le longeve Nip/Tuck e American Horror Story.
Un titolo facile, diretto, che ci rimanda a quell’insegna monumentale che svetta sulle colline del quartiere più famoso di Los Angeles e che fa rima con sogno. Questo è anche ciò che crede l’ingenuo Jack Castello (David Corenswet), un giovane veterano di guerra che nel 1947 sbarca a Hollywood per diventare una star. Ma l’ascesa al successo è piena di prove da superare, a cominciare dalla prostituzione. Quando Jack si confida con la sua prima, facoltosa cliente (Patty LuPone) rivela di voler diventare una star per un sentimento di rivalsa personale, ma anche perché il cinema per lui è sempre stato qualcosa di positivo e magico. Il potere salvifico del cinema è il filo conduttore della serie, anche se il messaggio tutt’altro che velato è che il raggiungimento di tale magia comporta dei compromessi.
Se in Feud Ryan Murphy aveva messo scrupolosamente in scena la rivalità tra due grandi dive e affidato le parti a vere grandi attrici hollywoodiane, qui la direzione assunta è completamente diversa. Infatti non c’è un tentativo di ricostruzione fedele dei fatti e i ruoli principali sono affidati ad attori giovani e prometteni. I riferimenti a persone e fatti sono spesso storicamente esatti e curiosi, come la stazione di servizio (sulla quale esiste un documentario) e le feste di George Cukor, ma Rock Hudson e Anna May Wong ebbero destini ben diversi.
Il fulcro della serie, il film Meg, è ispirato a una storia vera, quella di Peg Entwistle, aspirante attrice che si suicidò buttandosi dalla celebre insegna quando scoprì di essere stata tagliata da un film. Partendo da quello spunto Ryan Murphy e Iann Brennan immaginano cosa sarebbe successo se Hollywood fosse stata meno razzista, sessista e omofoba e avesse accettato, negli anni Quaranta, di affidare il ruolo da protagonista a un’attrice nera in un film scritto da un omosessuale.
Il cinema ci fa vedere come potrebbero essere le cose – dice uno dei personaggi – ed è proprio quello che Hollywood fa, episodio dopo episodio, mescolando invenzione e storia, omaggio e critica feroce, sogno e realtà. E alla fine poco importa se esordisce come una commedia brillante e dissacrante per poi trasformarsi nella fiera dei buoni sentimenti. L’intento è quello di mostrarci una Hollywood ipocrita, che nessuno voleva e vuole vedere tutt’ora, nonostante il recente movimento femminista “me too” e lo scandalo Harvey Wenstein.
Gli uomini di potere hanno sempre usato il sesso come moneta di scambio per l’aspirante attore o attrice di turno. A permettere ciò è stato lo stesso sistema che ha impedito a neri, asiatici, donne e omosessuali di occupare al cinema (e nelle nostre vite) un ruolo importante. Ma alla fine della visione ci domandiamo quale sia il senso di rappresentare come Hollywood, e il mondo intero, potevano essere già nel 1947, quando in realtà non sono così nemmeno oggi. Siamo nel 2020, eppure quanti film o serie hanno come protagonista neri, asiatici, omosessuali o donne non stereotipate? Ancora pochissimi.
Sfugge dunque il senso dell’intera operazione, se non quella di puro divertissement, ma bisogna riconoscere a Hollywood il merito di riuscire nell’intento di farci fantasticare sul potere dei sogni e delle storie che vediamo sullo schermo, ancora capaci di farci vedere come potrebbero essere le cose, nel bene e nel male.
Se quindi siamo disposti a lasciarci trasportare dall’ottimismo più sfrenato o se, addirittura, cerchiamo un feel good movie, Hollywood è la visione giusta. Nelle circa sette ore di durata la serie infatti emoziona, fa sorridere e ci accompagna nelle vicende di numerosi personaggi, tutti ben delineati, facendoci tifare per loro e con loro per un mondo più giusto. Bisogna però arrendersi alla sospensione dell’incredulità e accettare lo stile esagerato che ormai è diventato un marchio di fabbrica dell’autore: vicende inverosimili e improbabili (ma non quanto in The Politician, per fortuna), qualche sbavatura di troppo nella sceneggiatura (soprattutto negli ultimi episodi) e una lotta costante tra kitsch (di scrittura) ed eleganza (formale).
Innegabile infatti la qualità di fotografia, scenografie, costumi e musica che ci immergono nella Hollywood del tempo che fu. Ancora una volta poi una serie di Ryan Murphy merita un plauso per la scelta e la direzione degli interpreti. A rubare la scena in questo caso sono i comprimari, grandi e navigati professionisti di teatro, come Joe Mantello, già diretto da Murphy in The Normal Heart e qui nei panni di un produttore lungimirante. Formidabile Patty LuPone, già vista in tante altre serie dello stesso Murphy e qui moglie del magnate cinematografico interpretato da uno spassoso Rob Reiner, che ricordiamo soprattutto come regista di classici come Stand by me, La storia fantastica, Harry ti presento Sally, Misery non deve morire.
Non mancano poi volti televisivi come Holland Taylor (The Practice, Due uomini e mezzo), irresistibile direttrice di casting, e l’indimenticato Sheldon Cooper di Big Bang Theory, Jim Parsons, qui agente senza scrupoli. Meritano una menzione anche Dylan McDermott (un altro aficionado di Ryan Murphy) nei panni dell’impresario-benzinaio dal cuore d’oro e quella di Mira Sorvino nelle vesti di un’attrice sul viale del tramonto.
Per quanto riguarda i giovani protagonisti si può dire che hanno tempo per farsi strada: nei ruoli femminili ci sono due ex modelle, Laura Harrier nei panni dell’aspirante attrice nera Camille e Samara Weaving nel ruolo della figlia degli Amberg, mentre nei ruoli maschili ritroviamo tre volti noti al pubblico delle serie tv. Innanzitutto David Corenswet, già visto in The Politician, qui come aspirante attore di bella presenza che accetta molti compromessi. Poi c’è Darren Criss (Glee, American Crime Story: Gianni Versace), il regista esordiente che sogna un cinema senza discriminazioni e per finire Jeremy Pope (Pose), l’aspirante sceneggiatore gay e nero.
Insomma, se amate una serie ben confezionata in grado di stupire, intrattenere e commuovere Hollywood è la visione giusta.
Carlo Crotti
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