“Come un’ala perduta / era la notte intensa da mille voci ferita”, recita un verso di Lezama Lima, spingendomi a ragionare sul rapporto voci-ferite, che sa essere tanto astratto quanto anatomico. Se ho la gola dolorante, fatico a parlare e, se un pensiero mi tormenta, forse è perché non gli do voce. Gli scrittori presentati nella raccolta Heridas, Ventidue racconti dalla Colombia (Gran Vía edizioni), rispondono in modo cosciente al bisogno di un’oralità autentica , che sveli i vizi o i timori dell’essere umano, soffermandosi sull’universo emotivo più che sull’immagine stereotipata della società colombiana, scenario semplificato da chi guarda solo al narcotraffico o alla letteratura del boom. Quest’antologia, pur avvicinando il lettore italiano a un contesto esotico, non punta a renderlo un turista distaccato: piuttosto, gli permette di sentire l’odore dell’acquavite che beve il vescovo di Duitama, di provare il tormento incessante della protagonista di “Storia generale della tua vita”, vittima di una mente narratrice, di ascoltare il bolero “La rumba, son, palo muerdo” nel racconto di Pilar Quintana, di assistere al crollo di un mondo di apparenze in “La pianta, la piantina”, infine di voler trattenere la memoria di una nonna affetta da Alzheimer, come accade in “Cerchi colorati”.
In ogni racconto c’è una herida che abbiamo sentito, almeno una.
In “Fausto” di Patricia Engel, la presenza del narcotraffico è evidente, ma non centrale: Paz, la protagonista, oscilla tra il sistema valoriale di un padre onesto e il sogno di diventare ricca a tutti i costi (possibilità introdotta dal fidanzato, che inizia a dedicarsi – a insaputa di lei – ad attività illecite). Presa da un amore troppo forte, finisce per fagocitare gli stessi dubbi della società in cui vive: religione e onestà… o denaro e sotterfugi? Troverà un compromesso, ascoltando il richiamo intimo dei valori personali. In “Educazione sentimentale”, invece, la tenerezza che nasce tra due ragazzi, verrà messa in discussione dalla gelosia e dal bisogno di emergere che Guillermo cova, pur credendosi superiore agli studenti del proprio corso e pur raccontando a se stesso un odio che è, invece, latente bisogno di accettazione. In “Il mio ragazzo albino”, la sicurezza di un’adulta è minata dall’amore per uno studente albino, che la tormenterà e le farà riscoprire l’imprevedibilità delle passioni. Ho poi trovato “El cuello” un racconto apparentemente paranoico, ma incredibilmente passionale e profondo, che si sposta dall’ossessione del pomo d’Adamo (e del collo e del corpo, in generale) al profondo significato di questi pensieri, che sono allarmi molto utili per la psiche della protagonista, destinata a trasformarli e accoglierli.
Nell’avvicinarsi a questi racconti, è molto utile relativizzare il proprio sistema valoriale, dimenticare di essere capaci di giudizio e lasciarsi trasportare dal flusso della narrazione. Nel caso di “Il vescovo di Duitama”, ci sorprende la capacità oratoria di un vescovo ferrato su Shakespeare, che d’un tratto afferma: «Dio è il Creatore, ovviamente, lo so e ci credo fermamente, amica mia, come ci crede anche lei. Ma la ragione per cui crediamo è perché sta scritto nella Bibbia. Noi non crediamo in Dio in quanto autore di un libro ma in quanto personaggio». Il punto più alto del racconto, a mio parere, abita nel momento in cui la storia si biforca, permettendoci di ascoltare le due testimonianze sulla Vergine di Subachoque: due colonnine di testo che si accompagnano a vicenda, consegnandoci un vero esperimento di realismo magico, una sorta di Bibbia pagana alla quale vorremmo credere. Nel caso di “La pianta, la piantina”, l’immagine idilliaca di due genitori attenti alle tappe del proprio figlio, è distrutta dal bisogno di apparenza, dal loro tentativo di proteggerlo dal mondo, di farlo apparire impeccabile, di vincere la battaglia contro Pipe, bambino di cinque anni che – giocando a calcio – non passa mai la palla. Nel racconto “L’anno nuovo”, l’incesto è vissuto come un evento che non poteva essere evitato, come la conseguenza di lunghi mesi di tentativi da parte di una figlia che, trovandosi improvvisamente a conoscere il padre, finisce per volerlo conquistare. La stessa protagonista di “Sbronza”, è un esempio di passioni represse, di un’invidia che prova nei confronti dell’amica scrittrice e che la condurrà a un’atmosfera socialmente patetica, ma che nasconde una considerevole insoddisfazione.
Il grande strumento utilizzato dagli autori, con molto coraggio, è l’ironia. Dove gli eventi possono sembrare drammatici, senza via d’uscita, molti degli scrittori rifuggono la vittimizzazione del protagonista. Il primo assaggio è in “Cinghiali”, dove il protagonista mette a dura prova la propria relazione sentimentale, deviando il percorso per arrivare a una cena, finendo in un bordello e facendo uso di stupefacenti: è un succedersi di eventi ridicoli ai quali non può sfuggire, un’attenzione alla vita che è piccola come un emoticon col cinghiale. Per quanto voglia rappresentare una ferita dell’identità, profonda e lecita, “La bambina” è anche un racconto tagliente e sarcastico, sin dal momento in cui il protagonista ascolta la frase: «Sei l’uomo più brutto del mondo». Mentre “Un’attività tutta mia”, con la sua moltiplicazione dei neonati, è una sorta di racconto biblico urbano, che trasforma la miseria in opportunità (solo se letto da una particolarissima prospettiva).
Non potendoli citare tutti, ci tengo comunque ad affermare una bellezza che tutti possiedono, ognuno con le proprie particolarità. «Tutto quello che devi fare è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare», scrisse Hemingway: è un consiglio al quale, questi scrittori di talento, hanno prestato attenzione.
Rebecca Cicchetti
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