Racconto: Il posto delle rose rosse – Silvana Giuliano

Ogni volta che doveva tornare in quel quartiere si innervosiva.
E non era neanche per via dell’orario; era proprio il fatto che, quando era costretto ad andarci, non si trattava mai di cose buone.
Mentre guidava tra i palazzoni strinse il volante con tanta forza da rischiare di sbandare. Tutta colpa di Andrew, quel cazzone del suo collega, che si era dato malato tre giorni prima delle ferie. Il solo pensiero lo faceva diventare blu.
Quell’odore di rifiuti, quel lezzo di immondizie e copertoni bruciati che conosceva bene sembravano appiccicarglisi addosso, complice anche quel caldo insopportabile.
‘Il posto delle rose rosse’ lo chiamavano. Si diceva che lì era nato il primo fioraio della città, circa un secolo prima, e che si fosse arricchito con la vendita di rose rosse.
Ma delle rose quello schifo di posto aveva solo le spine.
Si passò la mano tra i riccioli umidi e poi se l’asciugò sulla camicia. Già sapeva che avrebbe dovuto dare spiegazioni a Sandy, sua moglie. Quella stronza non riusciva proprio a capire quanto poteva essere dura stare di pattuglia. Quando rincasava tardi sembrava fosse andato a divertirsi. Sì, certo, qualche volta andava pure con gli amici a bere qualcosa, ma ne aveva pure diritto, Santo Dio?

I marciapiedi semideserti, sotto la luce dell’imbrunire, erano di una strana colorazione arancio.
Un senzatetto coi capelli sale e pepe e i vestiti luridi spingeva un carrello della spesa ridendo da solo.
Ma chi cazzo vorrebbe crescere i propri figli qui?
Quando il telefono aveva squillato era stato tentato di non rispondere. Di lì a poco sarebbe finito il suo turno, dannazione. E poi anche lui aveva diritto a un po’ di riposo, come quel leccaculo di Andrew.
Ma se fosse stato il capitano? Come avrebbe giustificato la sua assenza?
Ed eccolo là, sudato e incazzato nel niente di quel quartiere industriale senza senso, nato inizialmente come covo di tossici e mai elevatosi. Più volte avevano parlato di “riqualificazione urbana”, ma da anni era sempre la stessa merda, e soprattutto aveva sempre lo stesso odore.
L’uomo dall’altro capo del telefono gli aveva fatto venire in mente suo padre. Chissà perché, chissà come, la sua voce supplicante gli aveva ricordato quel vecchio che in punto di morte gli aveva fatto promettere di essere un uomo migliore di lui. E si vergognava quasi di non essere riuscito a negarsi per quel sopralluogo. Ma quel vecchietto era troppo agitato. Stava chiamando la figlia da ore e nessuno rispondeva.
“Saranno andati a fare una passeggiata”, aveva provato a ipotizzare Thomas. Ma sapeva che lì c’era ben poco da vedere e che a quell’ora chiunque sano di mente si sarebbe rintanato in casa, magari chiudendo la porta a doppia mandata. E allora aveva fatto ciò che mai avrebbe pensato: si era offerto di andare immediatamente a controllare e di richiamarlo una volta appurato che niente di grave fosse successo.

“Dimmi dove sei stata!”. Marcos era in ginocchio ai piedi del suo letto che stava utilizzando come campo da battaglia. Nelle mani aveva due miniature in plastica, nella sinistra un indiano pellerossa, nella destra un soldato che chiamava ‘il capitano’. Gli abiti di quest’ultimo erano quelli di un tipico colonizzatore europeo in Africa: divisa beige, cappellino dello stesso colore con annessi occhiali a fascia, cinturone in vita con borraccia e pugnale.
Il capitano incalzava il suo antagonista. “Ti ho vista! Eri tutta preparata!”.
“Non è vero! Non stavo facendo niente!”. Il pellerossa sembrava soccombere nella piccola mano di Marcos.
Il personaggio nella mano destra sembrava prendere vita. “Smettila!” gridava, “mi stai prendendo per il culo? Mi vuoi far perdere la faccia davanti a tutti? È questo che vuoi?”.
I toni diventavano sempre più accesi e il pellerossa cercava vanamente di placare l’ira del capitano.
“Non è vero!” gridava. “Non ho fatto niente di male!”.
“E quel vestito scollato, eh?” il capitano si agitava così tanto che Marcos faceva quasi fatica a tenerlo in mano. “Secondo te sono un coglione?”.

Marcos, sei anni, era un bambino che quasi non parlava.
Nel quartiere aveva pochi amici, lo chiamavano ‘il muto’. Il suo aspetto gracilino certo non aiutava la sua vita sociale. Qualche mese prima la maestra aveva mandato a chiamare i genitori dicendogli che il suo mutismo le impediva di valutare correttamente il livello di apprendimento del bambino. Aveva detto che se non fosse cambiato avrebbe perso l’anno.
Allora Marcos era stato mandato da uno psicologo infantile, ‘uno di quelli che ci sanno fare’, lo aveva definito suo padre. Il dottore, dopo appena due sedute, aveva deciso di sospendere la terapia in quanto il bambino si rifiutava di parlare o di esprimersi in qualsiasi modo. Erano stati fatti tentativi di ogni genere, con disegni, giochi, ma nulla era servito a scardinare il muro che il ragazzino si era costruito. Il dottore aveva detto che continuare avrebbe significato rubare i soldi dei genitori.
“Passerà con la crescita”, aveva sentenziato, chiudendo la questione così, come si chiuderebbe una porta con la maschiatura difettosa.
Il pellerossa tornò a supplicare. “Calmati per favore”.
“Non mi calmo neanche per il cazzo!” sbottò il capitano furente, “secondo te non ho visto quel rossetto da puttana, quello sguardo ammiccante?”.
“Ma non ho fatto niente! Ero a casa ad aspettarti!”, la voce di Marcos era il veicolo delle lacrime del pellerossa, disperato perché non veniva creduto. Il respiro corto rendeva la sua voce tremante.
“Questa è l’ultima volta che mi hai umiliato, te lo giuro! Questa non passa!”.
Il pellerossa gridava ormai. “Non ho fatto niente, calmati!”.
“Adesso basta, non voglio più sentire la tua voce!”. Il capitano non aveva pietà. Così dicendo prese il pugnale che aveva nella cintura e si avventò sul pellerossa. “Questo è quello che meriti!”.
Lo colpì una, due, tre volte.
Il pellerossa gridò e pianse dal dolore, finchè la sua voce non si prosciugò come un liquido sotto il peso del sole rovente.
“Muori, puttana!”, il capitano, fuori di sé, continuava a infierire su quel corpo morente.
“Mamma, mamma!”, a Marcos scivolarono di mano i suoi personaggi di plastica, incrociò le braccia e si abbandonò ai singhiozzi. Le mani incrociate diventarono cuscino della testa che cadde pesante davanti a lui. Due colpi alla porta lo riportarono alla realtà.

Le lacrime sul viso di quel bambino gli dissero subito che non avrebbe potuto rassicurare quel vecchietto. Non si trattava di capricci. Lo capì al primo sguardo.
“Come ti chiami?”. Silenzio. E lacrime.
Thomas entrò, guardandosi intorno. Era tutto buio. “C’è nessuno?”. Davanti a sé un piccolo ingresso che conduceva a un corridoio. Si sorprese quando il piccolo lo prese per mano. Lo condusse nella sua stanza accompagnato solo dai suoi singhiozzi. Quasi subito intravide i piedi di quello che era stato probabilmente il padre del bambino. Pendevano da un corpo senza vita legato al soffitto in una stanzetta in fondo al corridoio. Il sangue nelle sue mani ormai era rappreso.
Scansò il bambino e corse nella stanza. Poco distante dall’uomo, abbandonato sul pavimento, vide il corpo di una donna colpita a morte. Il vestito celestino era ormai completamente imbrattato di sangue. Sul collo una ferita aperta. Gli occhi aperti che forse ancora cercavano il suo bambino.
Thomas prese in braccio il piccolo, senza proferire parola lo condusse nella volante.
Il bambino non parlava, ma tanto lui non avrebbe saputo cosa dirgli.
Un solo pensiero. Si fermò da un fioraio. Comprò una rosa rossa.
Qualsiasi cosa sarebbe successa, nel momento in cui fosse riuscito a rincasare, l’avrebbe donata a Sandy.

Silvana Giuliano

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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