Ci sono film la cui leggenda sopravvive all’opera stessa: riprese travagliate, registi difficili, tragedie sul set, ciak ripetuti all’infinito e poi, quando finalmente l’opera è pronta, in un paio di settimane sparisce dal buio delle sale cinematografiche per consegnarsi al mito o all’oblio. Ma anche film che dividono senza possibilità di compromesso. O altri che restano nella memoria per una sola, singola scena. Zabriskie Point è tutto questo e anche di più, e non smette di affascinare e vagare irrequieto nell’immaginario collettivo anche a cinquant’anni dall’uscita.
Era il febbraio del 1970 quando uno dei film più anticipati, problematici e discussi dell’epoca arrivò nei nostri cinema. Erano passati diciotto mesi dalla fine delle travagliate riprese, seguite da un montaggio e una colonna sonora altrettanto problematici. Nonostante la chiacchieratissima produzione, il pubblico che andò a vederlo fu assai esiguo e la critica americana lo stroncò senza mezze misure. Cosa ci spinge dunque a ricordare un flop – di critica e pubblico – di mezzo secolo fa? Il fascino di una lavorazione tormentata, una colonna sonora che ha il sapore del mito, l’impatto visivo nell’immaginario dei decenni a venire e il successo di C’era una volta a… Hollywood, al quale fa da pendant.
Michelangelo Antonioni aveva sessant’anni, era reduce dalla Palma d’oro e dalle due nomination agli Oscar di Blow-Up ed era del tutto intenzionato a fare il grande salto: attraversare l’oceano per conquistare l’America assestandole un bello scossone. Fallì in entrambe le imprese.
Fin da subito non molto gradito per le sue simpatie (diciamo troppo di sinistra), fece del suo meglio per attirare pure l’attenzione della polizia – si parlò di una rissa provocata per ottenere una scena più autentica – e addirittura del Dipartimento di giustizia per le decine di comparse nude in una scena di sesso collettivo divenuta poi famosa.
Le riprese iniziarono nel 1968, nel pieno dei movimenti sociali e culturali, ma il film uscì quando tutto era soltanto un ricordo. Il perfezionismo del regista fece sì che le riprese durassero più del previsto, e ancor più tribolata fu la scelta della colonna sonora, che doveva essere inedita.
Dopo il rifiuto dei Rolling Stones, già troppo esigenti (da un punto di vista economico), Antonioni si rivolse ai Pink Floyd, allora band emergente che sembrava rappresentare al meglio lo spirito giovanile dell’epoca. Insoddisfatto dal risultato, scelse solo tre dei sette brani composti per il film, di cui uno in realtà era un aggiornamento di un loro brano già pubblicato (Carefulwith That Axe, Eugene), mentre tra gli scarti figurava la versione embrionale di quella che sarebbe diventata Us and them, brano inserito nel loro storico album The Dark Side of the Moon. Prima di loro aveva consultato i The Doors, ma aveva poi rifiutato il loro contributo. Chiamò poi a Roma il musicista americano John Fahey, col quale fece a pugni.
La trama del film è piuttosto semplice: giovane borghese si infatua di hippie rivoluzionario e sfortunato, il lieto fine non è possibile.
Nel finale vediamo la ragazza mentre guarda l’esplosione della villa del suo capo, che è tra l’altro la riproduzione di una delle celebri case di Frank Lloyd Wright. L’esplosione è reale, e leggenda vuole che sia stata filmata da diciassette camere da presa che al rallentatore mostrano la distruzione degli oggetti che hanno contribuito a forgiare la società capitalistica e consumistica: ombrelloni, capi d’abbigliamento, tv, frigo, giornali e perfino libri.
Un’esplosione non aveva ancora avuto, al cinema, un valore così metaforico. E non lo ebbe nemmeno nel decennio successivo dove diventò puro accessorio dei film d’azione. Negli anni Novanta, con Matrix e The Fight Club, le esplosioni si sono finalmente appropriate della loro forza evocatrice.
Antonioni dunque è stato tra i primi a usare la potenza distruttiva e catartica di una detonazione e a coglierne l’effetto spettacolare. Il virtuosismo della scena ci ricorda anche che Antonioni è stato pure pittore e fotografo. Come enuncia il volume Red Desert Now! L’eredità di Antonioni nella fotografia italiana contemporanea (Autori vari, Edizione Confine, 2017) in quegli anni il regista affrontò tematiche che saranno poi centrali per la fotografia nei decenni a seguire per quanto riguarda la rappresentazione di paesaggi urbani e oggetti legati alla cultura di massa.
Audace anche la scelta di far esplodere una casa che richiamasse il più importante architetto e urbanista statunitense, che pure teorizzava un equilibrato rapporto tra uomo e ambiente. Un rapporto che nell’America di quegli anni non era più possibile secondo Antonioni, che decide di ambientare parte del suo film in un posto in cui la natura è morta, ovvero la Death Valley. Ed è proprio qui, nel luogo che dà il titolo al film, che si svolge un’altra scena discussa, un’affollata orgia nel deserto. Amore e morte, uomo e natura, capitalismo e rivoluzione sono le dicotomie su cui si sviluppa l’intero film. Il messaggio è chiarissimo: vince il capitalismo, quindi l’uomo, quindi la morte.
I critici statunitensi non perdonarono ad Antonioni di aver criticato il loro capitalismo, la politica repressiva e la polizia violenta, mentre in Italia trovò un illustre difensore nella persona di Alberto Moravia, che ne diede una chiave di lettura assai cupa interpretando il finale come una definitiva vittoria della morte sulla vita nella nostra civiltà industriale e tecnologica. Antonioni, dal canto suo, dichiarò che il suo film non andava interpretato come un saggio di sociologia, bensì un poema.
Col passare dei decenni Zabriskie Point diventò un punto di riferimento della filmografia di Antonioni e della cinematografia internazionale e rientrò tra i film proiettati all’interno di una mostra che il Moma di New York dedicò all’autore nel 2017. Ma è anche un must per i fan dei Pink Floyd e un cult per i cinefili.
E qui entra in gioco il più cinefilo dei cineasti, Quentin Tarantino, il cui ultimo film C’era una volta a… Hollywood rimanda alla visione del film di Antonioni. Lo stesso Tarantino conosce bene questo film, come del resto da lui affermato in un’intervista del 2016 al festival di Lione. Vediamo dunque perché questi film si richiamano a vicenda.
A unire le due pellicole innanzitutto c’è l’ambientazione: è il 1969, la vecchia Hollywood è in crisi, il movimento degli hippie al suo culmine. Quello che Tarantino ricrea, nel film di Antonioni è autentico: le strade, i look, le università, i negozi e non solo: lo stesso protagonista di Zabriskie Point, Mark Frechette, era veramente un hippie e viveva in una comune ed è impossibile non notare una certa somiglianza fisiognomica con l’attore che impersona uno degli spietati hippie diventati sicari di Manson.
Passiamo però al finale, in cui entrambi i registi prendono (finalmente) posizione: fino a quel momento il film di Tarantino è una filologica, spassosa, ben recitata ricostruzione di cui non si intuivano ancora le intenzioni; così l’opera di Antonioni è un’infelice e impossibile storia d’amore.
A un certo punto, tuttavia, Tarantino, come già fatto in precedenza, nega e capovolge la Storia (in questo caso la cronaca) per adattarla alla storia del suo film e Antonioni invece accetta la realtà (l’uccisione del ragazzo per mano della polizia), ma offre allo spettatore un’immagine che gli permetta di sfogarsi. Nella lunga esplosione al rallentatore lo spettatore finisce infatti per condividere il punto di vista della protagonista e sognare per un momento la distruzione di tutti quei simboli che hanno allo stesso tempo migliorato e alienato le nostre vite.
Qui interviene il potere catartico della violenza e più in particolare dell’esplosione. C’era una volta a…. Hollywood finisce con un’apoteosi di violenza negli spari esplosivi di un lanciafiamme ripresi al ralenti. Entrambi i registi dunque finiscono con un’esplosione catartica e optano per il sogno: quello di Tarantino è un mondo in cui Sharon Tate non venne mai massacrata (e un certo cinema mai ucciso), quello di Antonioni è un mondo che si libera del consumismo. Non tutti gli spettatori sanno però che ciò a cui hanno assistito è un sogno, e in fondo forse non importa. Ciò che conta è l’emozione. E quella resta intatta, anche cinquant’anni dopo.
Carlo Crotti
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