Se cercate una Roma da cartolina, da guida turistica o da manuale di storia dell’arte, con il solito compendio di memorie gloriose che rendono l’Urbe l’unica Città Eterna, questo libro non fa per voi, perché i racconti che compongono la raccolta della scrittrice Nadia Terranova intitolata Come una storia d’amore (Perrone Editore) rivelano, al contrario, una Capitale meno stereotipata e più insolita. Le storie si dipanano attraverso quartieri, strade e rioni meno conosciuti, o forse solo meno citati dagli attenti inseguitori delle mode, e nelle periferie e negli scorci più dimenticati della città la quotidianità dei personaggi riesce a emergere con veemenza. Tutto il mondo, con il suo fardello immenso di dolore e desiderio, si concentra dietro l’angolo di casa, perché un vicolo, una piazzetta, un bar o un marciapiede sono in grado di contenerlo in tutta la sua interezza.
L’amore che Roma promette è un amore pretestuoso, surrettizio, ingannevole. Nadia Terranova ce lo racconta come una chimera affamata di passione che abbindola e seduce, una città che genera “sentimenti estremi” e ti fa credere che tu possa avere una possibilità di scelta mentre in questo complicato rapporto d’amore a decidere ogni cosa è solo lei, la città, che agisce e vive nelle pieghe più profonde dell’animo della narratrice, la quale ci lascia intendere di un suo incontro con l’autenticità di Roma e prova a rivelarcene qualche lampo, generando faville di intuizioni più che di descrizioni, mentre la gente intorno ne parla e ne scrive servendosi di stereotipi ormai logori. Dicevamo, dunque, di questo rapporto che la città domina e vince su tutti, così spiegato nettamente da questa frase: “la città c’era prima di te e ci sarà dopo di te, il tuo passaggio le è stato lieve”.
Se Roma è lo sfondo di questi racconti, il suo multiculturalismo ne è fondamentalmente l’essenza. Terranova ridisegna i contorni della romanità, facendola uscire dal provincialismo in cui cade secondo l’immaginario popolare ogni volta che si sente parlare romanesco, allontanandola dal cliché dialettale o dal luogo comune di Romolo e del Colosseo per farci sentire invece uno sciame di colori e accenti nuovi. O almeno, per farceli indovinare. Una ragazza inglese scambiata per un’africana a causa della pelle scura, imprenditori dell’est, polacchi, senegalesi, transessuali colombiane, ebrei, bengalesi, studenti meridionali fuorisede e spagnoli Erasmus: ciascuno è un diverso, un diverso in cerca di qualcosa che pensa di poter trovare a Roma. Ma nel frattempo riceve un’etichetta, un pregiudizio, una buona dose di tribolazioni che si sopportano solo perché la promessa ammaliatrice della Capitale è spesso più potente della voglia di rinunciare. Eppure c’è anche chi molla. Dipende da quale delle due facce di Roma si sceglie di vivere e guardare: quella dell’accoglienza, che da tempi immemorabili allarga le braccia al pellegrino proveniente da ogni angolo dell’impero, oppure quella della malizia e dell’ambiguità, che mantiene le promesse di benvenuto a modo suo, manipolandoti e scaricandoti come solo un narcisista sa fare. Nadia Terranova sintetizza questa ambiguità con un pensiero: “[Roma è] una città che ti accoglierà subito e non ti accoglierà mai”.
Tutti i personaggi dei racconti si muovono in uno spazio di dolore e di attese. Aspettano che accada qualcosa, che accada la felicità, ma senza mai crederci troppo, in quanto la felicità non la si può raggiungere se non in uno slancio effimero che ci sottrae dalle sfiancanti incombenze quotidiane e dalle continue e assordanti pretese altrui. Oppure la si spia, questa felicità inafferrabile, quando essa si incarna in altre persone che non riescono mai a contagiare la voce narrante o il protagonista. Gli altri possono a volte sembrare felici, anche se in fondo recitano una parte e vogliono farcelo credere. La loro felicità finisce con l’assomigliare a una vita piatta e insignificante, come ci insegna Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina, mentre le passioni vere scavano autentici graffi nel cuore di chi soffre, di chi non sa andare avanti senza psicofarmaci, di chi deve convivere con una separazione o con una perdita.
In alcuni casi, certi elementi autobiografici dell’autrice si mischiano con le storie raccontate nelle pagine di questo libro, come per esempio l’abbandono della città natale e l’arrivo alla stazione Termini, ricalcando il viaggio di Nadia Terranova che lascia Messina per raggiungere la sua nuova città d’adozione. Separazione dai luoghi natali, sì, ma anche separazione dall’adolescenza. Altre volte sono le caratteristiche anagrafiche delle donne descritte nei racconti a far propendere per un forte sospetto di autonarrazione, che in molti casi resta una felice cifra stilistica di queste pagine, forse anche perché contiene la promessa implicita di una maggiore autenticità dei personaggi.
La separazione aleggia dunque come tema narrativo e orbita attorno alla figura della donna, strappata alla propria serenità dal marito, dall’amante, dai litigi dei genitori, dalla follia, dai figli che assorbono le sue energie perché sono troppo esigenti o perché, nella decisione di non averne, suscitano conflitti amari con tutte quelle altre donne che ti dicono che dovresti concepirne uno. Le aspettative sono molteplici ma nessuno si cura del rispetto della libertà altrui quando avanza una pretesa. Ecco che allora ogni donna è idealmente in fuga da sé stessa verso una meta che non si capisce bene dove sia; una fuga che ha il sapore della nostalgia, perché si tratta di un ritorno impossibile a una condizione indefinita del proprio io. La solitudine, l’impossibile desiderio di ritrovarsi da sola, è anche la condanna di chi fallisce in questa ricerca. Scrive, a questo proposito, Terranova: “So già cosa accadrà questa sera, cosa è sempre accaduto e ancora riaccadrà: un rito che va avanti da duemila anni, far finta di non essere soli per desiderare di essere soli, e in qualche caso essere soli per davvero e desiderare una persona precisa, una persona che non può esserci, e quella persona sono le mille persone che nella nostra vita abbiamo lasciato andare.”
La tonalità che più si addice a questo libro è il nero sbiadito. Nulla a che vedere col genere noir, però. Nero è l’umore, nere sono le nubi che si scorgono all’orizzonte, a prescindere dalle descrizioni quasi dannunziane dell’irresistibile “luce dolce e disperata dell’autunno romano”. Neri sono i corvi che provano a tornare a Roma dopo anni di assenza, proprio come uno dei personaggi che sembra ostinarsi alla sfida, che non si arrende al cambiamento, l’ennesimo animo che ingaggia l’impari lotta con la Capitale. Nero è anche il colore che si associa all’agonia della città riportata dai giornali e dai media: “[V]orrei essere una regista molto nera e farne [di Roma] un film gotico”.
Nera, infine, è la malinconia di certe protagoniste attraversate da prove e fallimenti, come la probabile sbavatura di mascara che potremmo idealmente scorgere in ciascuna di esse e che lascia intendere la presenza di lacrime, trattenute “da mille anni” e già asciugate, mentre le protagoniste tornano con coraggio alla lotta quotidiana.
Giuseppe Raudino
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