La mia casa aveva l’aria di un inferno soppesato fin troppo: i paradisi erano le arie aperte, i giardini, le bocche delle donne, i desideri futili, le strade colme di buche, i tabaccai…
Spezzavo sorrisi come foglie sulle labbra dei vicini, mordevo ogni selciato; la mia anima era tutto ciò che c’era di visibile e palpabile, finché Lei non venne: la grande direttrice della mia mente, Anna Gesti. La sua voce irruppe come un terremoto. Mi convinse che tutto quel c’era da fare perché non si morisse soli al mondo era vendere la propria coscienza all’amore.
Allora ero solo un derelitto: una doccia ogni due settimane. Padre e madre deceduti. Fratelli e sorelle, neppure l’ombra. Non un parente, cari. La mia solitudine era pura violenza e degradazione. E i miei vicini! Erano senz’ombra di dubbio le sole cose udibili. Sapete, i miei farmaci allora funzionavano bene: erano il mio giaciglio, il mio piccolo posto nella luce, sebbene quella luce fossi io. Non avevo nulla da omettere alla coscienza: i miei crudi capricci crepitavano, portavano rumore, al ché i miei condomini pensavano che avessi ospiti tutto il giorno, tutti i giorni. D’altronde, erano solo le mie creature: fagotti di ombre senza fisionomie o con fisionomie decisamente grottesche e raccapriccianti, senza identità, mutevoli e volubili, piangenti e ridenti… Insomma, una vera accozzaglia di cose preternaturali e stranamente reali.
Ma Lei era diversa: doveva venire, farsi carico di me, prendere un posto in mezzo a tutto quel degrado. E venne proprio come un miracolo: non ho dovuto far niente, neppure chiamarla, neppure aprirle la porta di casa. Ho dovuto solo torcere leggermente il collo. Lei era già lì, tra la cucina e il divano, in solenne attesa di fare la mia conoscenza.
“Buongiorno, la porta era aperta. Lei è il signor Berti Andrea?” – gracchiò.
“Si, prego?”
“Dottoressa Gesti Anna, piacere. Sono dell’Istituto Superiore di Sanità”.
“A che proposito, scusi?” – feci con la gola rauca. Le parole ristagnavano nella mia bocca. Ero incapace di comunicare decentemente.
“Lei ci ha chiamati, in realtà… Siamo venuti appena abbiamo potuto. Sa’, ci sono così tanti casi disperati nel mondo… Ma credo ne sia valsa la pena. La nostra attenzione, ora, è tutta per Lei”.
Qualcosa mi sfuggiva. Era decisamente al di fuori dei miei schemi razionali. Ero consapevole di poter essere scivolato nuovamente in un declivio mentale che mi avrebbe fatto baciare presto il fondo dell’abisso, ma questa “entità”, ora, era apparsa dal niente per dare una scrollata alla nera notte della mia mente. Il Cosmo l’aveva condotta nella mia piccola tana sporca. Non potevo non darle corda.
“Ah sì… Adesso ricordo. Come è riuscita a risalire a me?”
“Come le ho già detto, sono qui perché Lei ha richiesto i nostri servizi. Ecco qui,” – posò a terra la sua valigetta per aprirla e tirare fuori un computer – “Le riporto la sua email”. Prese a pestare energicamente sulla tastiera. Una grinta incredibile trasaliva da ogni suo orifizio. Avrebbe potuto benissimo essere un’artista geniale o un’agente dei servizi segreti nella sua vita precedente.
La sua aria era d’una signora sui quaranta, avvenente, gonna lunga da ufficio, occhiali da vista che somigliavano vagamente ai miei, capelli raccolti sopra la testa in un’alta spirale di chioma nera. Il suo approccio era assolutamente formale, freddo, distaccato, eppure, in qualche modo, genuino e spontaneo.
“Il giorno 10/10/2010 Lei ha pubblicato un’inserzione su tutte le nostre pagine social scrivendo: ‘Buongiorno, ho trentotto anni e vivo nella periferia di Roma. La contatto in quanto c’è troppo disordine nel mio appartamento. Credo sia appropriato che facciate un salto. Si rischia il colera, qui. Un caro saluto, Andrea Berti'”.
Quelle parole mi erano familiari ma non riuscivo a metterle a fuoco. Il suo sguardo e il suo breve silenzio erano puntati su di me come due falchi: io ero decisamente il loro pasto crudo, ma solo finché quella momentanea pace si rivoltò nuovamente: “Vedo che Lei è stato ricoverato al Sant’Alessandro di Roma.” – continuò – “Disturbo dissociativo della personalità, ex alcolista, tendenze suicide e autolesioniste… Ha anche trascorso due settimane alla Prison de la Santé di Parigi…”
Non dissi nulla. “Dal rapporto emerge che soffre anche di allucinazioni visive e uditive…” – si fermò un attimo – “Ha delle allucinazioni anche in questo momento?”
“Non da quando Lei è entrata” – risposi. In effetti, quegli appannamenti della vista che degeneravano così spesso in ombre viventi e interloquenti, erano svaniti, scomparsi nella misteriosa aura di quella donna.
Rimise il computer nella valigetta. La sua postura si era fatta più flessibile e i suoi occhi vitrei s’intarsiavano sempre più di un lieve rosso: la sua voce faceva trasparire un’amorevole compassione.
Si avvicinò con dolce confidenza. “Conosco il rimedio. Metta a posto tutto questo disordine.” – proseguì – “L’aiuterò io stessa”.
Compresi perfettamente quello che voleva dire. Sin dal momento in cui le sue labbra cominciarono a ripetere alla lettera quanto avevo scritto in quella contorta email, un’intuizione scese su di me per fare breccia nella mia nebbia di confusione. Il disordine cui mi riferivo in quelle parole era sicuramente una profonda proiezione mentale: solo ripulendo quell’ammasso di pentole sporche, sistemando quell’infinita pila di vestiti accartocciati in ogni angolo dell’appartamento e lavando via quelle orribili macchie di unto, vecchie almeno tre mesi e incrostate su ogni superficie, avrei potuto liberarmi dalla morsa della mia pazzia. Sapevo che il caos della mente cerca sempre di portarsi all’esterno e modificare l’ambiente in cui vive assecondando i suoi deliri: l’evidenza, da quando era entrata quella donna, si era accesa davanti a me con una certa grazia.
Ancora una volta, non dissi nulla. Raccozzai tutto il sapone e lo sgrassatore che avevo. Lei era al mio fianco, solenne come un giuramento. Ci vollero circa tre ore per intravedere il vero colore delle pareti, un’ora per ordinare tutti i miei vestiti e altre due ore per lustrare i pavimenti.
La mattina e il pomeriggio si rappresero in un lungo scroscio di sudore. A poco a poco, l’apparente vanità di tutto quell’affaccendarsi cominciava a sortire gli effetti sperati. Lei sembrava accorgersene, mentre lustravo meticolosamente l’orrida moquette grigio-cemento della sala. Non proferì parola. E io sentivo il suo sguardo come un trapano martellante sul mio cervello. Ma non era un dolore: piuttosto, una grazia nuova che non avevo mai abbracciato. Le medicine facevano il loro dovere, ma non si sono mai spinte – dacché le prendo – oltre una certa soglia di quieta stasi cognitiva. Questa era invece un’esperienza d’amore, che certamente non poteva essere il vano frutto di un’allucinazione. D’altronde, ricordo di aver davvero lasciato la porta di casa aperta quella notte per far arieggiare l’odore profondo e stantio del mio buco condominiale.
Sta di fatto che ci spartimmo la pulizia delle tre aree della casa: lei si occupò della sala; io, della cucina e della camera da letto. Raccozzai un vero pandemonio di cose lasciate alla deriva; la sporcizia era stata la mia orgogliosa padrona di casa per troppo, troppo tempo.
Quando finimmo, avevamo già familiarizzato molto: scoprimmo di avere in comune una passione smodata per la musica di Chet Baker e per il blues in generale, e un odio irrazionale per Frank Sinatra. Parlammo a lungo di Dio e della mente contorta della natura: sembrava mi leggesse nel pensiero. Scattammo perfino delle foto insieme con l’istantanea che avevo perduto un mese prima – e che per giunta avevo rinvenuto sotto il mio divano durante le pulizie.
Andammo avanti fino al tardo pomeriggio; non mi ero mai sentito così vivo. La nostra telepatia si faceva sempre più sensuale, al punto che, senza nemmeno accorgermene, l’avevo già abbracciata disperatamente.
Facemmo l’amore tutta la notte. Il mio orgasmo fu quanto c’è di più cerebrale al mondo. Il Nirvana aveva indossato la mia carne – ne ero certo; io e il tempo, quella tenera notte, fummo un tutt’uno.
Al mio risveglio, ero solo e nudo. L’aria che si respirava era tornata quella ordinaria; la gioia m’aveva lasciato sul cuscino con un velo di sorda disperazione sparso su tutto il mio cranio. Un lieve mal di testa spalancò la sua ombra sulla tempia sinistra. Istintivamente, balzai dal letto per correre nel soggiorno.
Il tempo s’era dilatato d’improvviso. Quella dottoressa doveva essere reale. Doveva esserlo. E la pulizia del salotto ne sarebbe stata la prova. Ciò che avevamo trascorso insieme non poteva essere solo il prodotto meraviglioso di un’illusione crudele. Era troppo specifico.
Raggiunsi il soggiorno. Un timore colossale m’impose di gettare un primo sguardo verso la cucina tappando la coda dell’occhio: era pulita. Mi volsi d’un tratto per lanciare un’occhiata furtiva alla camera da letto: pulita anch’essa. Dunque, avevo effettivamente pulito. Ciò nonostante, il gelido timore m’impediva d’affrontare apertamente la sala. Lo feci con calma: era pulita anch’essa. Il timore, per un breve lasso di tempo, mi scivolò via. Scorsi anche i suoi occhiali da vista che giacevano sul divano accanto a quelle che avrebbero dovuto essere le foto del giorno prima. Ciò che vidi fu il mio inferno: quelle istantanee ritraevano solo me, ridente, con gli occhiali da vista della dottoressa – che per inciso erano i miei –, mentre allungavo in vano un braccio nell’aria. Dove avrebbe dovuto esserci il suo volto, non c’era nulla. Un vuoto, solamente.
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