La casa era avvolta in un silenzio surreale.
Non accadeva quasi mai.
L’ultima volta fu quando la portarono dai nonni per discutere da soli di alcune faccende familiari. Quel genere di cose che per gli adulti sono sempre importanti, ma che per i figli valgono quanto una biglia da smercio.
Le riempirono lo zainetto di matite colorate, gomme da cancellare profumate, piccoli eserciziari di matematica e uscirono di casa, camminando con passo veloce fino alla vecchia utilitaria ferma sul vialetto d’ingresso.
Voltato l’angolo della strada, accostarono davanti a una villetta circondata da robuste piante di magnolia e rimasero seduti in silenzio dentro l’auto, con il motore acceso.
«Veniamo a riprenderti domani sera, piccola. Salutaci tu i nonni, ok?» le disse suo padre voltandosi sul sedile posteriore, spettinandole i capelli castani raccolti in un geometrico caschetto.
Sua madre invece non si voltò e continuò a fissare la strada alberata riflessa sul parabrezza, senza dire nulla.
La casa dei nonni era tutto uno schifo. C’era lana dappertutto. Il divano era di lana, le poltrone di lana, i letti di lana, le coperte di lana. Persino i pigiami erano di lana, ma spessi quanto una muta da sub. Di notte, sotto quelle coperte, ogni suono diveniva ovattato e si scioglieva nel calore di tutta quella lana.
L’indomani mattina, dopo colazione, Lucy ottenne da nonna Kate il permesso di tornare a casa per recuperare la sua bicicletta. Giurò che non li avrebbe disturbati e che sarebbe andata dritta sul retro, senza passare dalla veranda d’ingresso. Cosa che, neanche a dirlo, non fece.
L’ingresso era deserto e silenzioso. Come la cucina e il soggiorno. Ogni cosa pareva esattamente al suo posto, nello stesso ordine dismesso con cui sua madre cercava di colmare il vuoto di quegli inganni, riempiendoli di parvenze di normalità vacue e trasparenti.
Quel silenzio era denso di una geniale lucidità, quasi criminale, scevro da qualsiasi voce, grida o altra miseria umana.
Lucy rimase ferma per qualche istante sulla porta d’ingresso. Poi attraversò il soggiorno, si lasciò cadere sul divano e – immersa in quel silenzio – iniziò a tremare.
Il legno del parquet cominciò a scricchiolare sopra la sua testa e, contemporaneamente, sotto i loro passi.
Quando l’acqua della doccia cominciò a infrangersi sulla ceramica algida, sollevò la testa e si alzò lentamente dal divano, sfiorando il tessuto della seduta con il palmo della mano per cancellare la presenza del suo corpo minuto. Poi, sollevandosi sulle punte, raggiunse la grande scala di legno che dall’ingresso saliva al piano superiore, dove una sottile balaustra accoglieva le camere.
La porta della camera da letto era socchiusa, ma vide i loro corpi nudi dentro la doccia riflettersi allo specchio appeso alla parete accanto al letto.
La schiena di lei scivolava con ferocia sul vetro bagnato, mentre le mani di lui – grosse e forti – la sollevavano per le cosce ficcandocisi dentro.
Lui continuava a ripeterle con quella sua fastidiosa cantilena “te lo prometto, te lo prometto”, mentre la voce di lei replicava singhiozzando “sei un figlio di puttana”, stringendolo tra le cosce.
Lucy indietreggiò istintivamente di qualche passo e si accorse che le gambe cominciavano a tremarle. Prima che fosse troppo tardi, si aggrappò al corrimano di legno e scese le scale di corsa, spalancando la porta d’ingresso e precipitandosi sulla veranda, dove cadde goffamente. Poi si rialzò in piedi, corse sul retro, prese la sua bicicletta e cominciò a pedalare senza prendere fiato cercando di lasciarsi alle spalle tutta quell’acqua addosso.
Mentre pedalava le vennero in mente quelle cavolate che aveva sentito alla televisione su Freud e sui genitori, e pensò che un giorno – se mai avesse ucciso qualcuno – la colpa sarebbe stata sicuramente la loro.
Prima di voltare l’angolo della strada, all’incrocio con la quattordicesima, sollevò all’improvviso la testa e gridò – forse verso Dio: fottetevi tutti!
Ma poi pensò che a quello, ci stavano già pensando loro.
«Miss Carroll!?» ripeté la voce matura dell’agente immobiliare fermo accanto a lei. La donna scosse la testa come se si fosse precipitata in quella stanza all’improvviso, dopo un lungo viaggio.
«La casa è molto grande e accogliente. In buono stato, direi. Credo che non farò fatica a trovare un acquirente».
L’uomo infilò ordinatamente alcuni fogli e le planimetrie della casa in una valigetta di pelle nera, e si avviò verso la porta d’ingresso.
«Ci vediamo domattina nel mio ufficio per la firma dei documenti. Nulla di importante, non si preoccupi. La solita e inutile burocrazia» aggiunse poi sorridendo, con voce rassicurante.
Prima di chiudersi la porta alle spalle, l’uomo rimase a osservare il profilo esile della donna ferma di fronte alla scala di legno al centro del soggiorno.
«Non si preoccupi per le chiavi, Miss Carroll. Le tenga pure lei. Me le darà domani. Con calma».
La donna annuì senza voltarsi, salendo con gli occhi i gradini lisi della scala di legno di fronte a lei, le cui dimensioni le parevano ora svanite nell’illusione di un ricordo.
Forse ero io quella troppo piccola – pensò.
Si voltò verso il soggiorno, lanciò uno sguardo al divano coperto da un vecchio lenzuolo bianco e immaginò che le sue forme minute si celassero ancora lì sotto.
Poi uscì.
Mentre camminava lungo il vialetto si accorse che il sole si era alzato alto, oltre l’azzurro, e che la neve cominciava a sciogliersi delicatamente sotto i suoi passi, svelando gli strati profondi della normalità.
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