Si chiama Brama l’ultimo libro di Ilaria Palomba, uscito lo scorso gennaio per Giulio Perrone Editore. L’autrice pugliese arriva qui a un romanzo animato da una dialettica delirante tra costituzione dell’io e sua scomposizione, tra presenza e assenza. Con uno stile schietto e rapido, ma anche disposto all’accumulazione e alla reiterazione, Palomba racconta della giovane Bianca e delle sue esperienze estreme; a lei si relaziona e contrappone Carlo Brama, personaggio-simbolo che funziona come agglutinante o disgregante della sua personalità.
Frantumazione dell’identità
Già dalla copertina, che ritrae un giovane volto snaturato da sfasamenti cromatici e geometrici, intuiamo che la dimensione della personalità, e in particolare degli elementi che intervengono nel renderla più o meno stabile, è alla base del concept del romanzo. Il racconto di Bianca, condotto in prima persona, è infatti da subito orientato verso il problema della definizione di sé: dopo gli eserghi iniziali (uno da Savinio, uno da Jung), il libro prende avvio così: «Sono una debole, questo mi dice Carlo». Prende avvio, cioè, con il verbo essere, che qualifica la protagonista come debole e che è immediatamente ricondotto sotto l’egida di un’altra voce: l’incipit condensa già quelli che saranno i problemi sviluppati nel corso del testo; quello della debolezza, quello dell’identità, quello dell’autorità di Carlo Brama.
Questo personaggio, un filosofo di altissimo livello con cui Bianca vive un complesso rapporto di attrazione/repulsione, di carnalità pura, ma contemporaneamente di sintonia intellettuale, è infatti il polo di relazione attraverso cui Bianca tenta di delimitare la propria identità. Non siamo di fronte, però, a una forma di sottomissione: la vita della protagonista è presentata nello sparpagliamento che la caratterizza, dovuto a sua volta a una ricerca spasmodica di senso che non trova approdo: con un uso continuo di analessi e prolessi, Palomba mostra le esperienze radicali cui Bianca più o meno cosciente si sottopone, soprattutto durante l’adolescenza a Bari (le droghe, i rave, il sadomasochismo, il difficile rapporto col padre – ma anche l’immersione da bohemien in un labirinto di eventi e opere d’arte). L’incontro a Roma con Carlo Brama, quindi, è l’occasione per cercare di guarire questo sparpagliamento.
Ma se la sua vicinanza, da una parte, vuol dire principium individuationis e consapevolezza da parte di Bianca dell’oggetto del suo desiderio (quindi acquisizione del senso), dall’altro pone la protagonista comunque di fronte a un’esperienza radicale di materialità del corpo e insufficienza dell’intelligenza che torna a rivelarle il suo statuto di struttura aperta. Il lettore si trova di fronte alla coscienza di un soggetto che non riesce a costituirsi come io («L’errore più grande che si possa commettere è credere di coincidere realmente con la propria individualità») finché – nel finale – non avrà modo di redimersi (cioè farsi soggetto costituito) attraverso il rito dell’uccisione e della sostituzione.
Dérèglement narrativo
Raccontare in prima persona questo sfasamento dell’identità attraverso la molteplicità e la radicalità delle esperienze può significare – e così avviene in Brama – piegare anche la costruzione sintattica: alla frantumazione dell’identità corrisponde un déreglement del flusso narrativo. Nonostante l’autrice non raggiunga mai, qui, una deflagrazione che possa dirsi completa del linguaggio, la dinamica che anima la storia di Bianca provoca un rigonfiamento, dall’interno, anche delle strutture linguistiche, che vengono sottoposte, al pari dell’identità della protagonista, a una tensione tirata sull’orlo dell’esplosione.
Abbiamo così capitoli brevissimi, veloci, che si costruiscono spesso sulla reiterazione degli interrogativi, su discorsi indiretti liberi, sull’accumulazione di oggetti e azioni, di citazioni che inondano il romanzo e pescano da ogni ambito artistico. La coincidenza che occorre in Brama tra punto di vista e azione, provoca una sorte comune all’identità del personaggio e al suo racconto: se la prima è rivelata nella sua natura irrisolta e aperta, il secondo la segue e viaggia sul limite di una detonazione.
Psicopatologia dell’assenza
Rimane a questo punto da specificare quale motore costringe la protagonista a entrare in questo vortice. Il primo indizio viene dal titolo, che è, naturalmente, gioco di parole tra il cognome di Carlo e il sostantivo “brama”, la forma estrema, viscerale – direi patologica – del desiderio: «Non esiste solo l’invidia, c’è anche la brama, soprattutto la brama. Il desiderio è una fame atroce».
La confusione della vita di Bianca, l’offuscamento della sua identità sarà allora comprensibile in relazione a questo desiderio parossistico, che, a me sembra, si configura innanzitutto come desiderio di senso, brama di risoluzione dell’esistenza e di stabilità: in questa aspirazione insoddisfatta, in questa forma volutamente degradata di sehnsucht si offrono il dérèglement dell’io e del linguaggio che lo racconta.
Ma il desiderio è tale solo se imperniato sulla mancanza di qualcosa, su un’assenza: «ogni pensiero è presenza e io sono assenza, le cose avvengono e non passano per il simbolico, sono reale crudo, pasto nudo, si solidificano e si avvicinano come gli spettri di quando ero piccola che segmentavo la stanza». Il romanzo di Palomba, insomma, può leggersi come una forma delirante e aperta di psicopatologia e/o sintomatologia dell’assenza, di cui è colto ogni effetto sul corpo e sulla psiche, ogni curvatura che viene impressa all’azione e all’esistenza in genere. La dialettica tra i due protagonisti è perpendicolare a una dialettica tra il vuoto e la costruzione del senso, che passa per la (non) definizione dell’identità e per la (non) regolarità della pratica narrativa: l’infilarsi nei «sepolcri di Brama» (e della brama) è il rituale espiatorio per la conquista dell’identità – e di un’esistenza che abbia significato.
Antonio Francesco Perozzi
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