Racconto: Sei dicembre – Stefania Maruelli
June, seduta sul bordo del letto, le mani sopra le ginocchia, fissò il cassetto aperto. C’era questa camicia da notte azzurrina con le maniche lunghe, tre bottoni di madreperla e una striscia di raso tutto intorno al colletto. Era sicura di averla buttata molti anni prima, eppure sbucava dal cassetto del comò di sua madre. Alla fine di quel lungo pranzo si era rovesciata addosso il caffè: una lunga striscia di nero colava sul bianco della maglietta dall’altezza del seno fino al primo bottone dei jeans. June aveva imbevuto un tovagliolo con dell’acqua frizzante, come le aveva detto la madre, poi lo aveva passato sopra la macchia nel tentativo di farla assorbire. Tutto quello che aveva ottenuto era un alone più grande, un enorme capezzolo scuro all’altezza del cuore.
Infilò una mano sotto la maglietta, tastò il reggiseno, si annusò le dita: il caffè raffreddato aveva un odore più forte dell’unico sorso che aveva bevuto.
Molti anni prima, per sei settimane, quello stesso odore le aveva dato la nausea. Bastava il barattolo chiuso o vederlo colare dalla macchinetta. Il tempo che cadesse anche il cucchiaino di plastica dentro il bicchiere e June doveva correre in bagno, sciacquare i polsi, passare le mani umide sopra la fronte e controllare il respiro. Di solito bastavano pochi secondi.
Aprì del tutto il cassetto e si chiese perché la madre avesse tenuto quello che lei aveva buttato, avrebbe voluto tornare di là a dirglielo. La madre avrebbe risposto che la camicia da notte azzurrina era sua, l’aveva comprata da Macy’s.
– Oh, June – avrebbe detto frullando in aria una mano.
Poi avrebbe aggiunto qualcosa di frivolo per lasciare le cose com’erano, compreso il terzo cassetto. Sì, sarebbe andata così. June sfilò la maglietta, la lasciò cadere ai piedi del letto, rimase in jeans e reggiseno. Sfiorò il nastro azzurrino, i bottoni di madreperla, percorse il profilo del colletto; poi prese la camicia da notte e l’annusò. Sapeva di canfora. Tutto in quella casa sapeva di canfora.
Quel giorno era un sei di dicembre. June era entrata in un grande magazzino del centro ed era andata dritta al reparto della biancheria. Aveva scartato pigiami e sottovesti: le serviva una camicia da notte ampia e coprente. Aveva evitato le fantasie floreali, le righe, i pois e tutto ciò che era bianco, alla fine aveva scelto questa camicia da notte azzurrina ed era andata alla cassa. La commessa aveva sì e no la sua età, June se la ricordava solo per via di una voglia di vino sulla guancia sinistra. Era la prima volta che comprava qualcosa con i suoi soldi. Le era sembrato un po’ triste. Uscita dal grande magazzino, non ricordava se fosse davvero Macy’s, era andata a sedersi in un bar e ordinato una cioccolata calda con panna. L’aveva bevuta lenta, prima tutta la panna, pensando pensieri che ora non ricordava. Ricordava però che il bar era mezzo vuoto – una coppia che rideva, una donna con molti sacchetti – e che la pioggia che batteva sui vetri aveva la consistenza dei primi fiocchi di neve. In sottofondo una di quelle canzoni di Natale un po’ tristi, non avrebbe saputo dire quale. Il ragazzo, quello della coppia, a un certo punto aveva appoggiato i gomiti sul tavolino e di slancio aveva baciato la ragazza. Lei era rimasta immobile, le guance arrossate. June l’aveva guardata e aveva finito la sua cioccolata, poi aveva pagato ed era tornata a casa, senza fretta.
Arrivata aveva nascosto il sacchetto sotto il letto. All’alba era uscita e si era incontrata con Martha. Insieme erano andate in quel quartiere di periferia che non conoscevano, quello dell’ospedale. Martha diceva che era più sicuro perché lontano da casa. Aveva anche abbozzato un sorriso. June ricordava che indossava un cappottino a chimono, lei era già in camicia da notte. Quel giorno l’insegnante di lettere le avrebbe portare a teatro, davano Lady Macbeth, anche questo June se lo ricordava. Che ricordo ridicolo. Martha ci sarebbe andata, a teatro.
Alla fine di tutto, Bill era venuto a prenderla, forse era stata Martha a chiamarlo. Lui le aveva sorriso e l’aveva baciata sopra la testa. Si capiva che le era grato. Lei forse aveva pianto, o forse no, non ricordava. A Thomas non l’aveva mai detto.
– June?
La madre era in piedi sulla soglia della porta. I suoi capelli, leggermente ramati, facevano pensare a un nido di rondini.
– Non vorrai venire di là in camicia da notte?
June si guardò e scosse la testa.
– Sbrigati, ti aspettano tutti.
Lei annuì che sapeva e la madre tornò di là, sentì i suoi piccoli passi lungo il corridoio. Distese la camicia sul letto, piegò prima una manica, poi l’altra e infine la chiuse su sé stessa due volte. La ripose nel cassetto sotto un maglione, poi scelse una blusa di raso e se la infilò. La sentì scivolare sopra la pelle, morbida, fresca. Il caffè raffreddato e la canfora si mischiarono in un odore dolce e pungente come quei profumi che da bambina disprezzi, ma col tempo inizi a capire. June si alzò, stirò le pieghe del copriletto e richiuse il cassetto. Girò la chiave da cui ciondolava un cordino intrecciato uguale a quello che cadeva dalle tende. Un attimo prima di lasciare la stanza, si guardò nello specchio sopra il comò e sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, fece scivolare la mano sul raso della camicetta. La fermò sopra il seno, provò un sorriso. Il bianco le donava, dopotutto.