Nella colonia mennonita di Molotschna, luogo in cui la religione si fa sostituta del libero arbitrio, otto donne hanno a disposizione quarantotto ore per decidere del proprio futuro. Da tempo si svegliano doloranti e sonnolente, a volte con segni evidenti delle violenze ricevute: la colpa viene subito imputata a demoni e fantasmi, simboli di una realtà generata dalla fervida immaginazione femminile. Quando i fatti emergono, rivelando le responsabilità di mariti e fratelli che le narcotizzano con uno spray per animali, la realtà delle donne si frantuma e torna a ferirle. Prendono coscienza di un isolamento durato fin troppo, che le ha rese analfabete e ignare della geografia del mondo, inermi di fronte alle ingiustizie e quindi impossibilitate a fuggire. Persino il corpo si è rivelato dominio altrui.
Grazie al ritorno di August Epp, esule in Inghilterra, queste donne iniziano a valutare tre opzioni: non fare nulla, restare e combattere, andarsene.
In un testo di Guccini, “Shomèr ma mi-llailah”, viene rievocato il famoso versetto biblico:
«Sentinella, quanto resta della notte?». La sentinella risponde: «La notte sta per finire, ma l’alba non è ancora arrivata. Tornate, domandate, insistete».
Domandare, in Donne che parlano (Marcos y marcos) di Miriam Toews, diventa un rito magico e necessario: negli incontri clandestini, circondate dall’odore del fienile e dalle travi in legno, sentono finalmente di poter parlare. Salomè è sovversiva: intravede nelle azioni cruente una possibilità di riscatto, un narcotico per la rabbia che cova. Ona è poetica e sognatrice, moderata anche se affetta da nevrosi, disposta al dialogo e alla scoperta di un oltre. Mariche oscilla tra il dubbio e il dolore, nel momento in cui realizza di essere fin troppo radicata a una realtà inquietante. Ci sono persino Autje e Neitje ad assistere, due adolescenti che faticano a sostenere la drammaticità degli eventi. In un sovrapporsi di voci e pareri, che August Epp trasforma in verbali, le otto donne si scontrano e si consolano. Il dialogo diventa un’occasione per poter confessare l’istinto a vendicarsi, il bisogno di fuggire, i dubbi sulla propria identità, la mancanza di indipendenza che spinge Ona ad affermare: «Quando ci saremo emancipate, dovremo chiederci chi siamo».
In una narrazione fluida, in cui vigono solo virgole e punti, escono dalla pagina i dolori e i dubbi di ben tre generazioni di donne.
All’interno del romanzo, si cerca di sopperire a due analfabetismi: quello delle donne e quello del lettore, che sente lo stesso bisogno di immagini evocative, le uniche che possano rappresentare la nudità del dolore. Il primo simbolo è il Mar Nero, le cui acque più profonde non si mescolano con gli strati superficiali che ricevono ossigeno dall’atmosfera: sono acque anossiche, ma conservano nei fossili il ricordo della vita. In un contesto oscuro e asfissiante come Molotschna, c’è ancora una speranza di riscatto, di risalita.
Più avanti nella narrazione, August Epp rievoca una foto del Guardian, in cui le donne mennonite siedono sotto la trapunta di stelle: c’è Ona che afferra i braccioli della sedia, ma è protesa in avanti, per niente convinta di voler rimanere ferma o radicata alla terra che calpesta. Una calma apparente, minacciata dagli uomini che appaiono sulla sinistra, ma il cielo stellato – con il suo riverbero ocra – è la speranza di qualcosa che giungerà.
Il quinto affresco nella Cappella Sistina, “Creazione di Eva”, è un altro mezzo di chiarificazione: pur essendo nate in un contesto mennonita, che nega a priori un’interpretazione intima della religione, le donne possono riscoprire la forza di una spiritualità propria, approfittare del sonno di Adamo per poter parlare direttamente con Dio. August interpreta l’opera stabilendo collegamenti con Molotschna: «Nel dipinto, Eva supplica Dio, prega, implora… forse riflette, quasi fosse in suo potere restituire al cristianesimo la sua forma originaria. Lavora all’insaputa di Adamo, che dorme per terra, come per dire che sa che lui disapproverebbe. Ma disapproverebbe cosa? Il suo incontro privato con Dio? O quello che sta dicendo?».
Miriam Toews nasce in una colonia canadese di mennoniti, dalla quale fugge all’età di diciotto anni. Raggiunge due porti sicuri: Montréal e la scrittura. L’esperienza personale, così traumatica per una giovane ragazza, diventa una lente critica, una rilettura del proprio passato: i suoi romanzi sono un’occasione per riesumare la vita dei propri familiari, ricucire le ferite e avvicinarsi a vicende culturalmente attinenti al proprio vissuto. La scrittrice, in un’intervista, consiglia di “scrivere col sangue”, non attraverso uno stile crudo che emargini le emozioni dei protagonisti, ma utilizzando la pagina come spazio libero, strumento per dare voce a chi non ne ha. Per Donne che parlano, si è ispirata alla vicenda di Manitoba, colonia mennonita in Bolivia dove – tra il 2005 e il 2009 – le donne sono state ripetutamente narcotizzate e violate dai componenti della comunità. Nel 2011, gli uomini sono stati condannati dal tribunale boliviano, ma nel 2013 fu reso noto che le violenze e gli abusi continuassero a verificarsi. L’età delle vittime andava dai tre anni – come nel caso del personaggio di Miep, figlia di Salomé – ai sessantacinque anni.
Simone De Beauvoir, nel suo saggio La donna e la creazione, descrive l’approccio alla scrittura di molte donne che, volenti o nolenti, sono condizionate dal contesto culturale:
“le grandissime opere sono quelle che rimettono interamente in questione il mondo. Questo, però, la donna non lo fa. Criticherà, contesterà nei particolari; ma per rimettere completamente in questione il mondo, bisogna sentirsene profondamente responsabile”.
Come parlare di mennoniti senza cedere all’odio, al giudizio tagliente? Grazie all’allontanamento, che conferisce a Miriam Toews il dono del realismo e la capacità di discernere autonomamente tra il bene e il male. Tutto è permeato da un sentimento di compassione, dalla ricerca di una scrittura semplice, quasi primordiale. Ogni donna, nel suo libro, infatti, ha un inviolabile diritto di esprimersi.
Abbandonarsi al flusso di questa vicenda, intervallata dai momenti di profondo amore che August dedica a Ona, è un viaggio nell’universo femminile e nella sua forza d’animo, nascosta ma pulsante.
Rebecca Cicchetti
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