Intervista a Monica Pezzella, traduttrice de “La piaga dei gabbiani” di Stephen Gregory
Oggi arriva in libreria il nuovo titolo della narrativa straniera di Wojtek editore: La piaga dei gabbiani di Stephen Gregory, autore e sceneggiatore gallese. Il romanzo è tradotto da Monica Pezzella, traduttrice che vanta collaborazioni con editori quali Nutrimenti, LUISS University Press, Elliot, Ponte alle Grazie, Bur.
A pochi giorni dall’uscita io e Monica abbiamo avuto modo di parlare de La piaga dei gabbiani:
Ciao Monica, La piaga dei gabbiani di Stephen Gregory è il secondo titolo di narrativa straniera edito da Wojtek, dopo Il circo della Mellis (2019) sempre tradotto da te. Ci racconti come nasce questo progetto e come – magari – dialogano queste opere (se ci sono punti d’incontro tra i titoli o vie di fuga) all’interno del catalogo?
Wojtek si propone come editore di narrativa non di genere. Con “narrativa non di genere” io non intendo una narrativa che escluda i cosiddetti generi letterari; non sarebbe che un’inutile limitazione. Intendo invece narrativa in grado di restituire al genere la dignità e il valore letterario che si tende – nello scrivere un genere e nel pubblicare un genere – a sminuire o, peggio ancora, a tralasciare volontariamente in favore delle caratteristiche peculiari di ciascun filone reputate appetibili, in maniera del tutto aleatoria, per un determinato pubblico. Le mie scelte editoriali per il catalogo Wojtek sono andate dunque in questa direzione: estensione e valorizzazione piuttosto che circoscrizione.
Le opere di Miranda Mellis rischiano di vedersi affibbiare l’etichetta della distopia, eppure Il circo, per quanto descriva una realtà alterata, un totale capovolgimento della concezione canonica dell’aldilà – un aldilà che, a guardarlo da un punto di vista storico, evoluzionistico, si potrebbe davvero dire distopico – chiaramente non è un romanzo “di genere” distopico.
Allo stesso modo, Stephen Gregory lotta per scrollarsi di dosso la reputazione di “autore horror”, che rischia – nella fase di presentazione delle sue opere – di far passare del tutto inosservate le peculiarità stilistiche, culturali (in senso geografico) e d’indagine di alterità psicologica che sono invece la vera firma della sua produzione letteraria.
Al di là del discorso sul genere, i primi due titoli della collana di narrativa straniera di Wojtek – che immagino, o mi auguro, procederà in questa direzione – rappresentano un pezzetto di narrativa di Paesi (gli Stati Uniti per Miranda Mellis, il Galles nel caso di Gregory) che si discosta dalla produzione americana e britannica mainstream cui tendono ad attingere i nostri editori. Dal punto di vista letterario, il Galles – fortemente presente nei romanzi di Gregory con le sue tradizioni, i suoi paesaggi, i suoi fantasmi storici e non, e persino con le sue peculiarità linguistiche – è una terra praticamente inesplorata per i lettori italiani.
Altro filo conduttore è l’evidentissimo bisogno di comunicazione con altre forme di vita (e non) attraverso altre forme simboliche rispetto a quelle tradizionali. Per realizzare un tentativo di un ricongiungimento con ciò che si è perduto e risulta ormai irraggiungibile (i defunti, i sogni, i desideri irrealizzati) o di una propria collocazione in un mondo ormai estraneo (respingente, alieno, chiuso), entrambi gli autori si servono di personaggi, termini e immagini prismatici, enigmatici, che il lettore si troverà a dover necessariamente analizzare su più livelli.
Cerchiamo di inquadrare l’opera per i lettori italiani: chi è Stephen Gregory? e quale significato assume La piaga dei gabbiani nella sua produzione letteraria?
Leggo la domanda e la prima cosa che mi viene in mente è: Stephen Gregory è uno che vive come scrive. È originario del Galles, ma abita attualmente in Francia con sua moglie, il suo cane e i suoi due gatti, alternandosi tra una casetta di campagna sulla riva di un fiume e una fattoria del XVI secolo che sta ristrutturando. Immagino osservi molto gli uccelli. Ha scritto molte opere, quelle dei primi tempi sono in realtà molto più allucinatorie e stranianti delle ultime e sarebbe interessante riscoprirle. Ha raggiunto il successo con Il cormorano, che si è aggiudicato il Somerset Maugham Award nel 1985 e da cui è stato tratto l’omonimo film trasmesso dalla BBC. Da quel momento, nei suoi romanzi gli uccelli – e tutti i misteri racchiusi nei loro occhi che scrutano noi esseri umani dall’alto – non sono mai mancati. La piaga dei gabbiani è un altro capitolo di questa misteriosa indagine.
Nel suo libro precedente, Wakening the Crow (2014), aveva scelto di muoversi entro il genere horror componendo una sorta di omaggio a Edgar Allan Poe. L’anno dopo questa sua versione del corvo, l’universo letterario di Gregory è stato abitato da un gabbiano. Quali funzioni letterarie assumono queste figure nelle sue storie, cioè come si configura la presenza animale nelle sue opere?
Come dicevo, nel caso di Gregory bisogna superare l’ingombrante e fuorviante etichetta del genere horror comunemente inteso; è ciò che lo stesso autore sta cercando di fare, al punto che nella biografia sulla bandella della versione originale l’editore decide finalmente – e proprio con La piaga dei gabbiani – di precisare che “Stephen Gregory è generalmente definito un autore horror, nonostante le sue opere riflettano l’amore per la campagna inglese e gallese e soprattutto la sua passione per i volatili”.
Negli anni si è parlato addirittura – come ricordi anche tu nella domanda seguente – di un paragone con gli Uccelli di Hitchcock, ma in realtà i volatili di Stephen Gregory – il cormorano, il corvo, il gabbiano – sono qualcosa di completamente diverso. Non sono un’entità orrifica. Sono l’oggetto (vivente) su cui il protagonista umano riversa le proprie aspirazioni e con cui compensa le proprie carenze in un rapporto morboso, psichicamente complesso e alterato, allucinatorio ma solo fino a un certo punto, disperatamente bisognoso di un ricambio affettivo e comunicativo. Sono un anello spezzato nella catena che legava il protagonista, che è in combattuta simbiosi con la sua controparte libera e selvaggia, alla società che vede invece gli uccelli solo come una fastidiosa, inconoscibile presenza o addirittura un’inquietante minaccia alla quotidianità.
Detto questo, vien da sé che gli uccelli sono il simbolo della natura gallese, liberi di spaziare dal gelido mare selvaggio ai tetti di ardesia dei piccoli paesi fino ai monti innevati della Snowdonia.
Forse è un accostamento banale, o almeno immediato, ma l’attività di sceneggiatore di Gregory mi fa pensare che una certa influenza per la scrittura di questa storia l’abbia avuta anche gli Uccelli di Hitchcock. Oltre alla tradizione letteraria – elementi gotici abbondano nella sua prosa – hai percepito, in traduzione, la traccia della scrittura per il cinema?
Si percepisce in maniera evidentissima ma, come dicevo, ha poco a che fare con Hitchcock. Riguarda piuttosto la struttura narrativa, il susseguirsi delle scene, i cambi di location che non sono introdotti da alcuna costruzione linguistica ma appaiono come istantanee, o meglio, scritti come appunti in una sceneggiatura. Un esempio concreto: nella descrizione di una visita di gruppo attraverso i luoghi storici della città antica, Gregory non scrive che i personaggi si spostano da un luogo all’altro; si limita invece a segnalare ogni spostamento adoperando una struttura composta da appositi capoversi che iniziano semplicemente così: “Al castello”; oppure: “Alla forca”; o ancora: “Poi lungo le mura”; e da lì segue la narrazione.
Questo spogliare le immagini quanto più possibile della lingua fa forse parte del suo bagaglio cinematografico.
Infine vorrei chiederti: com’è stato il lavoro di traduzione? c’è un tratto peculiare della scrittura di Gregory che ti ha permesso di individuare la sua voce?
Gregory si serve di una lingua limpida e diretta che insiste molto sulla ripetizione di termini e immagini fino a risultare quasi ridondante; questo gli consente tuttavia di conferire a ciascun romanzo un sapore, un odore inequivocabili; un’atmosfera tangibile che finisce con l’impregnare l’epidermide del lettore. Ma io non parlerei di un vero e proprio registro: le sequenze dialogiche sono estremamente colloquiali, soprattutto perché a parlare sono spesso ragazzini o individui piuttosto eccentrici, e Gregory ne rispetta la realtà dell’espressione verbale. Tuttavia, quando si tratta di descrizioni paesaggistiche o incursioni nel pensiero, il registro si eleva di molto, talvolta sfocia persino nel tecnico. Ed è in questo contrasto che si distingue, inequivocabile, la sua voce di scrittore.