Racconto: Theresienstadt – Giovanni Palilla

Pubblichiamo oggi un racconto di Giovanni Palilla tratto da Incipit (Alt!). Ringraziamo l’editore che ci ha permesso di condividerlo.

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La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. Non sappiamo perché il più delle volte ci ricordiamo di fatti o avvenimenti o dettagli apparentemente inutili, come il paradigma del verbo latino fers oppure ogni dettaglio della conversazione origliata alla fermata di un autobus quindici anni fa, per poi dimenticare il compleanno di una persona cara o una cosa urgente da sbrigare. Gli inglesi, per dire imparare a memoria, dicono learn by heart, letteralmente “con il cuore”. Ciò significa che ricordiamo solo ciò che ci sta veramente a cuore e tutto il resto solo se rimane spazio? E perché dimentichiamo le date importanti, gli avvenimenti importanti, i ricordi necessari? Forse perché la memoria è anche duttile, malleabile, ovvero, plasmabile dal nostro volere, soprattutto da quello più interno, quello a cui possiamo accedere solo quando passeggiamo tra le rive di Morfeo.
Nessuno di questi pensieri affollava la mia mente mentre costeggiavo la riva del fiume e non avevo il minimo presentimento che, a fine giornata, avrebbero aleggiato nella mia testa per più di una settimana. Ma io me ne stavo lì, senza saperne niente, a guardare quel fiume di cui non sapevo pronunciare il nome e che io e i miei amici avevamo ribattezzato fiume Lete. I tedeschi amavano quel fiume: di domenica, quando il clima nordico lo permetteva, la gente del luogo soleva fare lunghe passeggiate in quel parco, in particolare in prossimità di quel fiume. Alcuni facevano anche delle escursioni in canoa; altri, dove l’acqua era più pulita, facevano pure il bagno. Noi ci limitavamo a guardarli e a dire, con fare campanilista, che nulla di tutto ciò poteva eguagliare il nostro mare italico. Bisognava però ammettere che l’atmosfera era molto conviviale, e se il sole splendeva non faceva neanche così tanto freddo. Era piacevole abbandonarsi in quell’oblio domenicale.
Mi ero seduto lì, su una panchina davanti al fiume, e ho lasciato che i pensieri della mia mente scorressero come il fiume che avevo davanti. Ero così assorto che non mi ero neanche reso conto del tempo che passava, del sole che calava e del buio che scendeva attorno a me. Vedevo adesso le bici che proiettavano un fascio di luce davanti a loro. Cazzo. Ho dimenticato l’appuntamento. Il concerto di musica classica all’aperto. Guardo il cellulare, ovviamente messo in silenzioso, e trovo cinque chiamate perse. Chiamo, e tra le mille scuse che invento sul momento mi avvio con passo veloce verso la piazza dove ci dovevamo incontrare. È buio, non c’è una luce, e passo da un sentiero all’altro, con l’ansia che mi cresce. Dove mi trovo? Sono ancora in quel bosco?
Mi guardo attorno, cerco delle vie riconoscibili, familiari, ma è tutto oscuro. Il bosco ha ingoiato pure me e presto finirò in balia dell’incessante scorrere delle acque del fiume. Ma proprio mentre mi faccio prendere da questi foschi pensieri, cupi come il luogo in cui mi ritrovo adesso, tra un albero e l’altro vedo un lampione. Una strada illuminata. Mi avvio subito verso la strada e finalmente torno alla civiltà. Vado giù fino in fondo alla via e finalmente mi raccapezzo. Di gran fretta, mi dirigo verso il centro e da lì alla piazza, che dista solo pochi minuti.
C’è una gran folla, il concerto è già cominciato. Cerco il mio amico con lo sguardo ma ovviamente non lo trovo. Lo chiamo una, due, tre volte ma non risponde. Con la musica classica che invade ogni angolo di questa piazza è difficile sentirlo, il telefono. C’è un gran palco di fronte all’opera e alla sua fontana. L’orchestra è al completo, dietro di loro, tenori e soprano che stanno seduti, non cantano ancora. O forse hanno già cantato e me li sono persi. È vero che in questa città è possibile sentire musica classica in ogni vicolo, ma da quando sono qui cerco di non farmi mai sfuggire un’occasione. Non conosco il programma, non so cosa m’aspetta questa sera. Perdendo ogni speranza di trovare il mio amico, mi avvicino ormai alla folla, e divento folla anch’io. Lì, in piedi, ascolto le ultime note di un brano che sta per terminare. Dopo gli applausi di rito, cala il silenzio. Il gruppo di tenori e soprano che stanno dietro si alzano, sono tantissimi. Comincia una musica incalzante, potente, le voci si levano in aria, si intrecciano in un unico flusso sonoro che ti colpisce dentro.
Più che a me, in realtà, sembra aver colpito la persona che sta accanto a me. Mentre il concerto va avanti mi sento toccare il braccio, poi strattonare. Non faccio in tempo a girarmi che vedo questo anziano signore cadere a terra; il volto sgomento, gli occhi rovesciati. La fronte canuta è imperlata di sudore. È venuto giù così, di colpo, stavo quasi per cadere anch’io. Mi abbasso e nel mio povero tedesco gli chiedo: «hallo? Alles klar?» Lui mi prende il braccio e mi tira a sé. Poi mi guarda, con gli occhi spiritati, e balbetta. Cerca di dire una parola ma non ci riesce. «T…», «T…», «T…».
«Wie bitte?» Come prego? Gli chiedo, sapendo già che della sua risposta capirò solo poche parole sparse qua e là che difficilmente, messe insieme, riusciranno ad avere un senso. Mi stringe ancora più forte il braccio. Mi guarda fisso negli occhi. «Ther…» «Theresi…».
Theresienstadt.
Ad un tratto sono lì, a Terezín, Theresienstadt.
Vedo gli ebrei dietro un pianoforte che cantano, con tutta la poca forza che rimane loro ancora in corpo.

Dies irae, dies illa
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sybilla

È nei loro occhi la favilla, guardano i loro boia mentre invocano l’ira divina. Lanciano un anatema irreversibile, terribile, giusto. E per qualche ragione io sono lì, cammino davanti a loro, ma nessuno mi vede. Si sente solo la musica.
Theresienstadt.
Tutti i maggiori capi nazisti erano lì, ad ascoltare la maledizione che un giorno si sarebbe abbattuta su ognuno di loro.

Quantus tremor est futurus,
quando judex est venturus,
cuncta stricte discussurus.

Vedo le voci degli ebrei unirsi in un unico coro, la loro preghiera diventa un’evocazione. L’aria si fa densa del fantasma della vendetta. Ha visto, nel cuore di ognuno dei cantori, sa cosa gli aguzzini hanno fatto loro. E sa pure che cosa gli faranno ancora. Se un Dio esiste, nulla di tutto ciò può restare impunito. Il fantasma della vendetta registra, e si dissolve con la fine del canto.
Scoppia un applauso, che proviene sia dal pubblico di ebrei sia dai nazisti. Per un solo momento, riesco in qualche modo a sentire i loro pensieri, i pensieri dei tedeschi. Poverini, pensano, si stanno cantando il requiem da soli. Non avevano capito che quel requiem era un’invocazione di vendetta per loro. Cammino ancora tra il pubblico, come un fantasma, e ad un tratto lo riconosco.
Tu eri lì, a Theresienstadt, mio vicino di folla, e quando l’orchestra in piazza ha inondato l’aria con quelle terribili parole, non appena giunte alle tue orecchie la memoria non ha potuto trattenere i ricordi. E per qualche strana e inspiegabile ragione mi hai trascinato con te, forse perché avevi bisogno di un testimone. Dicono che Dio sia morto; dicono che gli dei siano morti da ancor prima. Se è davvero così, qualcuno o qualcosa deve aver preso il posto di Mnemosine, quella sera, perché ha ripristinato una memoria che quest’uomo aveva represso, cancellato.
Il fantasma della vendetta ha mantenuto la promessa e quella sera è venuto a collezionare un’altra anima. Siamo di nuovo in piazza, si è raggruppato un nutrito numero di gente attorno a noi, mentre il concerto va avanti, ma solo io posso vedere la falce del fantasma della vendetta che si abbatte sulla sua testa. Trema, il viso rigato dalle lacrime, vedo tanta paura. Ma non so riconoscere il volto del pentimento. La mano della vendetta entra dentro al petto, estirpa la sua anima. La presa del mio braccio si affievolisce. È spirato.
Io, testimone inconsapevole di tutto ciò, non avevo nessun potere sullo svolgersi degli eventi di quella sera. Non avrei potuto interferire sul corso di quel processo delle anime che va avanti da prima che io nascessi. Non so perché sia stato coinvolto quella sera, ma so soltanto una cosa. Che la memoria umana è fallace, che basta osservare il comportamento di chi ci circonda o il nostro stesso per accorgercene.
Ma è vero anche che certe cose non vanno mai dimenticate. Come Theresienstadt.

Giovanni Palilla

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Giovanni Palilla

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