Azzorre. Viaggio in una tragedia personale
8 febbraio 1989. Un volo per Santo Domingo, una vacanza. Uno scalo tecnico a Santa Maria delle Azzorre, nulla di straordinario. Alle 14 l’aereo si schianta contro Pico Alto. 137 passeggeri, tutti morti. Fra questi, un uomo di nome Giuliano Giampaoli.
Quasi quaranta anni dopo, sua figlia, Cecilia, va a Santa Maria delle Azzorre per capire, per capirsi, per riappacificarsi con la propria tragedia familiare. Questa è una storia vera.
Confronto e accettazione
Il libro Azzorre di Cecilia M. Giampaoli, edito Neo. Edizioni, è la storia di quel viaggio. Un tentativo di riappacificarsi con se stessa – così appare dal testo – prima ancora che con la memoria del padre. Perché recarsi a Santa Maria delle Azzorre appare non diverso da una visita a una tomba di chi – per la prima volta o dopo lunghi anni – va a parlare con un caro defunto. E come potrebbe essere diverso?
Ma è un viaggio che ha le sue regole. Cecilia si trasforma in una sorta di yes woman, sceglie di non rifiutare le occasioni che le capitano, anche se non sa dove porteranno, anche se non sa se costituiranno un punto di progresso nel suo percorso. Percorso – bene dirlo subito – che non è la ricerca di un colpevole, ma il tentativo di saperne di più, di far emergere qualcosa. E il fatto che Cecilia accetti gli eventi come vengono appare quasi come la voglia che sia la tragedia stessa a parlare, a riemergere, a liberarsi dalla memoria collettiva di quella piccola isoletta.
Perché in tutto il libro è evidente come l’incidente aereo rappresenti un evento fondativo per Santa Maria delle Azzorre. Tutti sanno che è avvenuto, tutti lo ricordano, e chi non può ricordarlo sa esattamente di cosa si tratta. Addirittura i giovani vanno a recuperare pezzi dell’aereo. In un contesto del genere, la visita della figlia di una delle vittime rappresenta una preoccupazione – perché si teme possa cercare teste da tagliare – un evento da accettare e favorire. Non sono in pochi gli autoctoni che cercheranno di aiutare Cecilia con i propri mezzi. Tutti capiscono che è un momento di accettazione, è il momento – con quarant’anni di ritardo – di venire finalmente a patti con l’accaduto. E tutti, ancora, la spingono a salire su Pico Alto, come se fosse la cosa più normale da fare, in quella situazione.
Ma Cecilia temporeggia.
«[…]È già salita a Pico?» chiede mentre autografa il frontespizio.
«Non ancora, ma ci andrò» rispondo.
«Sì, ci vada. Le servirà a far pace con il suo lutto».
La questione della pace con la morte di mio padre torna a infastidirmi, ma non dico niente. Il Direttore mi dà i libri e mi accompagna alla porta.
«Mi ascolti, non salga lassù da sola».
Mi guarda negli occhi e adesso parla da uomo.
(C. Giampaoli, Azzorre, Neo Edizioni, 2020, pp.56-57)
L’attesa di Pico Alto
Il libro è un resoconto del viaggio, l’ho già detto. Ma è più di un diario. La gestione dei tempi narrativi, del ritmo, è propria di una scrittrice capace. È un libro, questo, che si regge su due presupposti. Da una parte l’empatia impossibile da non sviluppare con la protagonista, il desiderio che riesca a trovare risposte e al contempo con l’attesa di sapere cosa accadrà nel momento in cui – finalmente – metterà piede a Pico Alto. Dall’altra, la descrizione di un microcosmo, un’isola come Santa Maria delle Azzorre che lo è non solo in quanto pezzo di terra fra le acque, ma soprattutto perché isol-ata anche da un punto di vista culturale e sociale.
Poco più di centocinquanta pagine, ma un libro capace di essere letto in poche ore. Se c’è da trovare un difetto, in un libro fra i più belli letti nella prima metà dell’anno, è forse è il finale. Non perché le aspettative non siano rispettate, ma perché dopo lo spannung – quel punto di massima tensione che aspettavamo dalle prime battute del libro – si esaurisce ciò che il libro aveva da raccontare e tutto ciò che segue, una sorta di lungo epilogo, non è capace di mantenere alta l’attenzione come tutto il resto della storia.
Fuor di questo, Azzorre è un libro capace di raccontarci un viaggio di riscoperta, di accettazione, di raccontarci una tragedia attraverso un senso di pace. Un dolore personale che diventa esperienza comune.
Maurizio Vicedomini