Stralcio VII è uno dei racconti contenuti in Il sorpasso dell’irrealtà di Anemone Ledger, edito da Homo Scrivens.
Ego dominus tuus.
Dante Alighieri, Vita nova.
Passavano gli anni in cui essere ghibellino o guelfo non comportava, nella sostanza, alcuna differenza; ci si appropriava dell’appellativo di difensore del papato più che dell’impero, o viceversa, a seconda delle proprie esigenze. Lo spessore delle personalità era tanto ridotto che la parola “ideale” era ancora sconosciuta ai più; vari frammenti di questi concetti erano incasellati nella leggiadra letteratura che aveva radici in Francia e che colpì col proprio amore un’Italia ridotta a brandelli incompatibili.
Nella prima metà del duecento, Ugolino della Gherardesca, di famiglia ghibellina, decise di allearsi con Giovanni Visconti, di parte guelfa. Fu l’interesse reciproco che portò al rovescio della vita del primo uomo. Ugolino possedeva vasti feudi e difendeva le posizioni dei ghibellini in Italia; ciò rappresentava una marcia in più per le esigenze politiche di un territorio, come quello Pisano, che appoggiava il potere imperiale. Quando si scoprì che aveva preso accordi con un uomo della fazione opposta, il conte Ugolino venne accusato di tradimento e bandito dalla città.
Egli non si diede per vinto: riconquistò il suo amato prestigio, stringendo le redini di Pisa proprio quando quest’ultima fu sconfitta duramente in una battaglia. Si vociferava che il conte non fosse adatto al potere, che fosse un codardo fuggito dalla lotta con la coda fra le gambe; tuttavia questo – e altro – non gli impedì di conquistare, seppur per un breve periodo, il potere. Agli occhi dei pisani Ugolino rimase un traditore. La situazione s’incrinò vorticosamente quando Ugolino cedette alcuni castelli ai lucchesi e ai fiorentini pur di impedire pericolose alleanze altrui, spogliando Pisa della sua difesa.
Nel 1285 si alleò con suo nipote Nino Visconti, ma tra i due emersero ben presto conflitti anche a causa dell’esaspe-razione sempre crescente dei pisani.
L’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, ghibellino, guidò il popolo pisano alla rivolta, contro Nino Visconti. Ugolino, che in quel momento non era in città, accettò un accordo fasullo con l’arcivescovo e fu imprigionato nella torre della Muda, assieme a due figli e due nipoti.
Nel 1289 fu dato ordine di gettare la chiave della prigione nell’Arno, lasciando i detenuti in un miserabile spazio scarno. Furono i nove mesi più lunghi della vita del conte. La finestrella della cella mostrava l’avvicendarsi di più lune che, di notte in notte, parevano divertirsi illuminando con un chiarore sempre più intenso le facce grigie dei cinque uomini.
Il conte era perseguitato da ambigui sogni; in uno di essi l’arcivescovo Ruggieri era a capo di una battuta di caccia con l’obiettivo di uccidere lupi: un gruppo di famiglie, con magrissime cagne al seguito, pronte ad attaccare. Le immagini erano disturbate da una sottilissima patina, una sorta di nebbiolina che avvolgeva ogni uomo creando interferenza con la realtà. Non si udivano suoni; le urla dei combattenti, che spalancavano le loro larghe bocche per il dolore, erano mute. Anzi, pensò il conte Ugolino chissà quanti giorni dopo – nella cella il tempo non aveva effettivo valore – un suono c’era: un sottofondo di leggeri battiti sincronici pareva creare una macabra melodia a ogni attacco, ogni ferita, ogni cadavere che la sua mente individuava riverso a terra. Sarebbe stata una battuta di caccia del tutto simile alle altre, se solo le prede – i lupi – non fossero state gli abitanti di Pisa. Il sangue stillava come acqua brillante e cristallina; i fianchi di uomini, donne e bambini pisani, era squarciati dai denti aguzzi delle cagne. Era un’inequivocabile immagine di morte, nonostante alcuni avessero ancora la forza di alzarsi in piedi e fare qualche passo nella speranza di trovare soccorso.
Fu svegliato, prima del sorgere del mattino, dal lento pianto dei bambini. Mugolavano chiedendo del pane, ma il conte non proferì parola. E non lo fece nemmeno quando udì la pesante porta della torre chiudersi con un tonfo disumano. Avrebbe potuto cacciar fuori unicamente versi d’orrore, aggravando lo spietato destino che il Fato aveva riservato loro. Non appena un raggio di sole penetrava nel doloroso carcere, il conte rivedeva il proprio misero aspetto nel corpo dei suoi nipoti e figli. Fissava quei tratti emaciati sgomento, attendendo di poter tornare indifferente con le ombre della notte.
Per disperazione arrivò a mordersi quotidianamente ambedue le mani; tremava, per la straziante consapevolezza che il vuoto avrebbe definitivamente massacrato la loro anima. La morte sedeva già da parecchio tempo accanto a loro, il conte lo sapeva.
«Padre, aiutaci. Perché non ci aiuti?».
Quelle parole gli squarciavano l’animo; per lui un padre che non poteva dare sostegno ai propri figli non era pienamente degno di questo nome.
Intanto il mordersi nervosamente le mani era divenuto un gesto abituale, tanto che arrivava a ingerire piccoli pezzi di pelle. Le sue mani era sanguinanti in molteplici punti e i suoi piccoli non potevano far altro che sperare che non mangiasse i propri arti per davvero.
«Padre, soffriremo certamente di meno se tu ci aiuterai a renderti felice: mangia i nostri corpi. Tu ci hai donato queste misere carni e tu toglicele».
Il conte restava in silenzio riponendo le mani e acquietandosi un poco per non rattristarli maggiormente. Riuscì a fingere bene, tanto il suo cuore era diventato di pietra. Quella sconvolgente frase aleggiò in quello spazio ristretto anche per i giorni seguenti. Ugolino ritenne quelle parole addirittura offensive; sperò semplicemente che la terra s’aprisse per inghiottirli e farli sparire il più presto possibile.
Il conte non pianse, né rispose per tutto il giorno e la notte seguenti. In uno stralcio di tempo qualsiasi – non valeva la pena conferire ai giorni un nome, lì dentro – si svegliò ricoperto di sudore e straziato dalla terribile pressione che ormai schiacciava il suo stomaco. Appena levò gli occhi verso i propri piedi, vide ciò che la sua mente aveva già assimilato tramite gli incubi: il cadavere del suo Gaddo era stretto alle sue gambe in un’ultima richiesta di aiuto. Ugolino sussultò, mentre un’ondata di lacrime risaliva ai suoi occhi.
Dopo suo figlio, morirono anche gli altri prigionieri. La torre della fame – così avevano iniziato a chiamarla i piccoli e così la chiamava anche lui – divenne il cimitero delle più nefande bestemmie e delle più tristi urla.
Ugolino brancolò moribondo sui loro corpi per parecchio tempo, pregando Dio di averli accolti in misericordia; non lo avrebbe perdonato, se non lo avesse fatto. I cadaveri cominciarono a emanare terribili odori; il tanfo era maggiore vista la quantità di escrementi rilasciati dai prigionieri all’interno della stretta cella.
La morte era seduta proprio sull’accumulo di feci posto sotto la finestrella; batteva insistentemente con l’indice e il medio sul pavimento sporco, in attesa di dare definitivo scacco matto. Aveva già cominciato ad abbassare lentamente la sua ossuta mano sulla scacchiera, quando il conte si gettò disperato sul corpo di uno dei due nipoti, in preda alla più indefinibile pazzia. La morte restò con la mano ossuta a mezz’aria, spettatrice privilegiata di quello spettacolo osceno.
La mascella di Ugolino mordeva e stracciava con forza la povera carne di uno dei suoi piccoli; chiedeva scusa, piangendo e mangiando avidamente. Con occhi biechi affondava i denti nei cadaveri, succhiandone il sangue vecchio e ferroso. Stava miseramente centuplicando il supplizio dei suoi piccoli, ma lo stomaco chiedeva, disperato, di voler cibarsi ancora.
Ogni volta che era sazio, il conte sollevava la bocca dall’orribile pasto, pulendosela con i vestiti o con i capelli di questo. Immaginava che il suo banchetto fosse costituito dal corpo decapitato dell’arcivescovo Ruggieri. Tanto più pensava al torto subito, tanto più premeva i denti contro le ossa dei cadaveri.
Ugolino riuscì a sopravvivere anche ai mesi invernali, in cui il pianto stesso, cristallizzato dal freddo, gli impediva di piangere ancora.
La morte, nella sua seducente veste nera, aspettò ben nove mesi prima di trascinare il conte con sé nell’abisso dell’Antenora.
Il conte fu sia premiato che maledetto negli inferi: fu un piacevole supplizio, per lui, passare l’eternità a mangiucchia-re il maledetto capo dell’arcivescovo Ruggieri.
Anemone Ledger
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