Venezia: tonalità, sensazioni, sinestesie. Colori che si mischiano, casualmente, come due cose belle che si incontrano per serendipità ma che non è detto che debbano produrre un risultato altrettanto bello quando si uniscono. È soprattutto il caso a mescolare le emozioni, ora forti ora leggere, ora separate in compartimenti stagni, ora esplose l’una nell’altra, similmente a tubetti di colore lanciati l’un l’altro come proiettili. Oppure è un amalgamarsi attento e preciso, sapiente e alchemico, sulla tavolozza di un pittore che cerca con fatica l’ordine, il cosmos, la combinazione esatta per far funzionare il cromatismo imperfetto delle relazioni e di ciò che la vita ha in serbo per i personaggi. Di questo persino la gondola, simbolo della città in cui è ambientata la storia, ne diventa una felice metafora: otto tipi di legno, duecentottanta pezzi che si devono incastrare alla perfezione, fondendo colori, essenze e profumi diversi.
Di colori e di complesse combinazioni è intriso il romanzo di Lorenza Stroppa intitolato Da qualche parte starò fermo ad aspettare te (Mondadori, 2020). Intanto perché a ogni personaggio viene assegnato un colore che lo descrive fisicamente e caratterialmente, e poi perché la bellezza di Venezia è così difficile da riproporre in modo originale a causa delle infinite sovrascritture narrative su questa città che si sono sedimentate nei secoli, tra sguardi provenienti dall’esterno, stereotipi, paure, sogni, tradizioni ed esotismi. Insieme a Giulia e Diego, potremmo dire che Venezia è la terza protagonista, addirittura forse la terza incomoda all’interno della loro complicata relazione. Venezia è un personaggio a sé stante che suggerisce, punisce, innalza e soffoca. Arcipelago sospeso tra le nubi, in cambio del sogno di bellezza sul quale poggia malgrado la corrosione inesorabile dell’acqua e del tempo, circoscrive l’orizzonte e limita il movimento, come il ventre materno che accoglie la vita e nasconde il mondo, dove l’acqua dei canali è il rassicurante liquido amniotico e le facciate alte dei palazzi, tra le calli, sono le pareti dell’utero che protegge durante i movimenti angusti.
Eppure Venezia è anche presentata come una madre sterile, invecchiata e spenta, incapace di partorire e, di conseguenza, incapace di generare nuova vita. La vitalità va forse ricercata altrove, come le dolorosissime scelte di Giulia lasciano presagire.
Può disegnare con velocità e precisione, può osservare i dettagli di oggetti e persone con precisione maniacale, può dipingere assecondando il gusto kitsch dei turisti in cerca di uno scorcio veneziano o modulare sulla tela i moti più profondi del suo animo, attraversato da passioni e dolori che lo scompongono e lo ricompongono, lasciando cicatrici ad ogni trasformazione. Degli infiniti colori di cui può disporre, Giulia non è più in grado di usarne uno: il rosso. Rossa è la vita, rossa è la passione, rossa è la tragedia. Escludendo solo una di queste cose, sembra che nella sua vita si escludano automaticamente anche le altre.
Se Giulia ha un approccio visivo ai sentimenti, Diego tende invece a minimizzare i propri dietro l’eccessivo cerebralismo delle parole. Per lui, conoscere l’etimo delle parole ha un che di rassicurante, perché sembra consentigli il raro privilegio di eliminare l’incertezza nascosta in ogni semiosi. L’etimologia rende Diego libero dall’imbarazzante imprevisto dell’ermeneutica, dalle interpretazioni più faticose e inattese, quelle che potrebbero compromettere una conoscenza dirompente del mondo, al di fuori di schemi e concettualizzazioni confortevoli.
Tra una tavolozza orfana di un colore e un vasto vocabolario di termini rassicuranti, l’equilibrio della loro storia d’amore s’incrina quando ciascuno dei due – Diego e Giulia – ha qualcosa che non può dare all’altro. Nel tiremmolla di equivoci e chiarimenti, il tema della salvezza diventa di primaria importanza. Il ruolo di salvatore o salvatrice presuppone la presenza di qualcuno che ha bisogno di essere salvato, ma nonostante i tentativi di proteggere la persona amata, il romanzo ci spiega bene che il successo di ogni tentativo di salvezza parte proprio dalla volontà di chi deve lasciarsi salvare. In più, l’opera di Lorenza Stroppa si sofferma sull’intreccio che sussiste tra salvezza, amore, prendersi cura di qualcuno e assumersi delle responsabilità verso quella persona.
Se nel complesso il romanzo è ben costruito, l’unica nota che ci è parsa stonata è indubbiamente la dimensione eccessivamente pedagogica che attraversa indistintamente moltissimi personaggi. Se a volte la pedanteria e la voglia di atteggiarsi a mentore potrebbero ben adattarsi a un personaggio solo per caratterizzarne certi aspetti, questo romanzo sembra attraversato da una forte pulsione alla didattica, perché quasi tutti vorrebbero spiegare, sviscerare, analizzare, insegnare qualcosa a Giulia, oppure vorrebbero consigliarla e mostrarle la giusta via.
Felice è invece la scelta stilistica di alternare il racconto dal punto di vista dei due protagonisti, usando la prima persona. In questo modo l’autrice riesce a fornire al lettore una visione d’insieme che si avvicina molto a quella che avrebbe potuto offrire un narratore onnisciente, in quanto il lettore può conoscere i particolari reciprocamente ignorati da Giulia e Diego senza però rinunciare all’introspezione tipica della scrittura in prima persona. Ne viene fuori un montaggio che dà un bel ritmo alla storia e la vivacizza fino alla risposta finale.
Giuseppe Raudino
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