La poesia come lotta: intervista a Ilaria Grasso, autrice di “Epica quotidiana”
Epica quotidiana di Ilaria Grasso (Macabor, 2020) è una silloge di cui si è molto parlato: nasce da un attento studio del mondo del lavoro, del precariato in particolare, qui si apre l’immensa questione della dignità dei lavoratori e delle derive estreme dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Prendendo le mosse dalla poesia civile di Fortini, Brugnaro, Scotellaro, Pagliarani la Grasso elabora una poetica personalissima, semplice, diretta e ironica su tematiche che meritano un approfondimento. Di seguito alcune domande all’autrice:
Perché il titolo Epica quotidiana?
Il titolo Epica Quotidiana nasce alla stazione Termini di Roma, città che in cui risiedo da molti anni, durante uno dei tanti cambi di autobus per arrivare al lavoro. Abitavo allora a Talenti e dovevo arrivare a Porta Metronia e per arrivare in ufficio ci mettevo un’ora e tre quarti all’andata e un’ora e tre quarti al ritorno. Spesso le corse saltavano e ero costretta a andare a piedi. Attraversavo muri di persone che mi sembravano battaglioni di un esercito. Erano tanti soldatini, vestiti in modo diverso, ma tutti con un’unica missione: arrivare in orario sul luogo di lavoro. Nelle cuffie spesso, per una incredibile coincidenza, c’era Us and Them dei Pink Floyd. Il che rendeva il tutto molto molto epico. Il progetto del libro si è consolidato giorno dopo giorno e quindi ecco il perché della scelta dell’aggettivo “quotidiana” che vale sia per il titolo che per quanto riguarda l’epos che ognuno di noi vive ogni giorno.
Spiegami anche i titoli delle varie sezioni.
Quando ho iniziato a assemblare le poesie e a creare una raccolta organica ho individuato i temi cardine e li ho nominati. “Le gesta dei padri” rappresenta non solo un omaggio ma anche una riflessione sul passato e un tentativo di cogliere e di sciogliere i nodi che ancora sono presenti a oggi, compreso il fatto che di voci femminili sul lavoro non ne ho trovate e trovarne di attuali è stato e è sempre assai difficile. La sezione “In itinere” è il percorso che tutti noi compiamo per andare al lavoro tutti i giorni. Ho cercato di rintracciare gli affanni e le asperità di questo momento della giornata di chi, pendolare o cittadino delle metropoli, vive tutti i giorni. All’interno di “In-organico”, utilizzando volutamente un termine aziendalistico, ho provato a dare voce a alcuni lavoratori spesso non ascoltati o di spogliare dalle narrazioni tradizionali o in uso alcuni profili professionali tentando di far emergere elementi troppo spesso coperti perché troppo scomodi. E infatti le questioni non vengono sollevate ma cestinate nell’“organico”. La sezione “Variazioni aziendali” nasce dall’osservazione di quello che molti chiamano “gossip aziendale” e cioè tutto quel discorso che ruota attorno alle fattispecie di contratti attraverso i quali le aziende cambiano pelle per continuare a esistere. “Nello stato in cui siamo” è nata con una battuta del mio amico Ubaldo C, il quale dopo uno dei tanti scambi sulle politiche del lavoro mi disse: «Ilaria, l’Italia è una repubblica fondata sullo stipendio». Mi colpì molto e decisi allora di declinare quella sua battuta nei primi dodici articoli della Costituzione, la sezione più caustica di Epica Quotidiana. Con “Memento”, sezione conclusiva della raccolta, ho inteso dare un po’ di respiro alla serrata denuncia che avevo portato avanti durante tutto l’“epico” versificare.
Dal momento che ci sono molti omaggi, ti chiedo qualcosa di più sui tuoi riferimenti poetici, cosa della loro poesia è trasmigrata nella tua?
Di sicuro, come Aldo Nove nella sua prefazione ha abilmente riconosciuto, sono stati per me “palestra di passione e stile”. Ho sicuramente “preso” molto da loro. La visione della vita e del lavoro di Bianciardi, il dolore e la dura analisi di Ottieri, il senso della testimonianza di Volponi e quello della denuncia di Fortini, Brugnaro e Scotellaro. Ma più di tutti ho preso da Pagliarani e dalla sua Carla che è un’eroina che non sa di esserlo proprio come molti lavoratori oggi che hanno perso il senso del loro lavoro, la loro consapevolezza come cittadini lavoratori e la voglia di lottare.
Quale la metrica e come mai? Come mai la scelta delle rime?
Il mio è un verso che va a capo perché sente di andare a capo per questioni di respiro nella lettura e per questioni grafiche. Le rime nascono spontanee sulla carta e si innestano nell’impianto creando una sua propria architettura quando faccio una poesia.
A volte la tua poesia appare come un ritratto, allora ti chiedo se ci sono dei riferimenti pittorici o comunque figurativi.
Amo molto l’arte moderna e contemporanea, soprattutto l’astratto. Mi sono nutrita negli anni con Fernad Legér che ha espresso in maniera sublime il senso meccanico della vita alienata nei ritmi di produzione. Ma molto devo agli artisti della scuola Bauhaus che mi hanno insegnato un approccio artistico connotato da elementi fortemente militanti e di sostenibilità ma anche ai writers che grazie ai loro murales vestono costruzioni e palazzi e muri che altrimenti risulterebbero anonimi nell’omologazione edilizia che tutti possiamo osservare nelle città. Mi piace molto soffermarmi sulle scritte che trovo per strada perché hanno la capacità di comunicare e farsi ascoltare più delle urla. Poi c’è ovviamente Balestrini che molto ho amato sia nella scrittura che nelle sue composizioni e collages che hanno fatto storia oltre che arte.
L’impegno civile sembra essere per te fondamentale, in che modo ciò arricchisce la tua poesia?
L’impegno civile, l’attenzione a come alcuni aspetti della realtà vengono sistematicamente invisibilizzati, la frequentazione delle piazze e dei cortei e dei vari contesti assembleari, la scelta di letture lontane dal cosiddetto “mainstream” sono la materia fondante della mia poesia e della mia vita. Frequentando i più svariati luoghi e contesti, origliando conversazioni, osservando le varie posture, fisiche e esistenziali, contemplo e versifico. Devo ammettere però che le manifestazioni, i cortei e le piazze sono troppo poco frequentate da politici e intellettuali. Insomma si fa cultura e politica anche e soprattutto con la presenza e con l’impegno alla presenza che sa essere azione con gli altri e per gli altri. Un’abitudine che ho preso da poco è la lettura di testi di geopolitica perché, se è vero che in Italia e più in generale in Occidente, abbiamo validi pensatori e economisti, abbiamo il dovere di andare oltre e vedere nuovi stili di vita e modalità di governare e essere cittadini per avere la consapevolezza attiva di chi è cittadino maturo e non sempre bambino da accudire e assistere, quando, di volta in volta, anche rimbrottare.
Restando sull’impegno civile vorrei mi parlassi in particolare dell’impegno al fianco delle donne e della tua visione della donna oggi.
La presenza maschile all’interno della mia famiglia è molto molto ridotta. Ho iniziato quindi a ascoltare le donne, in primis a casa e poi nei vari contesti in cui mi sono trovata per scelta o per caso. Mi definisco transfemminista e non amo le posizioni separatiste all’interno dei movimenti o delle realtà associative che si occupano di quella che nel Novecento era definita la “questione femminile”. Non mi piace venga dato per scontato il binomio donna e madre come pure bisogna avere il coraggio di dire che la “solidarietà tra donne” è una pratica ancora troppo poco usata e quando la si usa lo si fa, nella maggior parte dei casi, con scarsa consapevolezza. Per esempio quante volte ci sarà capitato di fronte a una collega dal fisico avvenente di pensare che questa abbia fatto carriera non propriamente per le sue doti professionali. Non mi piace parlare di parità di genere perché nasconde l’unicità dell’essere umano. Mi piace di più il concetto di Pari Opportunità che non estenderei solo al maschile e al femminile ma a tutti i soggetti svantaggiati. Troppo spesso la politica si interessa solo alle “quote rosa” ma alle donne della “working class” chi ci pensa? Il mio è un pensiero che si ispira a quello di Anna Kuliscioff e lo cito qui perché al momento è quello in cui mi riconosco seppur con alcuni dubbi sulla validità del termine “classe”.
Voglio anzitutto confessarvi che, pensando intorno alla inferiorità della condizione sociale della donna, una domanda mi si affacciò alla mente, che mi tenne per un momento perplessa e indecisa. Come mai – mi dissi – isolare la questione della donna da tanti altri problemi sociali, che hanno tutti origine dall’ingiustizia, che hanno tutti per base il privilegio d’un sesso o d’una classe?
A. K.
In una poesia dedicata a Majakovskij scrivi «i muri sono crollati e forse anche tutto il novecento», cosa c’è dopo il Novecento quindi dopo l’impostazione storica e culturale di stampo produttivo e individualistico?
Bella domanda! A saperlo… Di sicuro ci troviamo di fronte a un assetto geopolitico nuovo e non abbiamo ancora una mappa stabilmente connotata. America e Russia non la fanno più da padrona ma abbiamo anche da osservare la Cina e l’India e tutti i paesi dai quali viene estratto il petrolio. Insomma non possiamo permetterci più un approccio nazionalista ma dobbiamo fare un percorso che ci apra e ci conduca all’internazionalizzazione.
Facciamo parte dello stesso mondo quindi l’unica via è la co-operazione ma in quanti hanno messo a fuoco questo concetto per davvero pensando a un nuovo paradigma che sappia partire da un minimo comune denominatore? Mi ricordo una bella lezione universitaria del Professore Antonio Chirumbolo. Affermava che se in una classe di studenti riesci a conquistare il più difficile li hai conquistati tutti. Ecco partire dalle esigenze degli ultimi può essere un buon punto di partenza per abbattere le disuguaglianze e mi auguro che politici, filosofi, intellettuali, scienziati e poeti inizino a collaborare ognuno con le proprie conoscenze per la creazione di nuovi paradigmi. Mi auguro anche che insegnanti, famiglie e educatori siano sempre in sinergia all’interno di un “patto” che preveda quella che chiamo “pedagogia del coraggio” che prevede l’incoraggiamento e la fascinazione di valori quali la responsabilità, l’onestà, l’etica, la gentilezza e l’equanimità.
Mi dici qualcosa sulla scelta delle persone/personaggi a cui ti sei ispirata, lavoratori, proletari, impiegati fuori sede, addetti delle pulizie, rider, chi sono?
In realtà non li ho scelti, li ho incontrati in quattro anni di ricerca, per lo più casualmente. Altri invece sono nati nella mia mente e nei miei versi dalla lettura di saggistica del lavoro o articoli di giornale e documentari.
Ansia, depressione, schizofrenia, nevrosi. Cosa pensi del dolore dell’anima?
Nell’immaginario comune le parole “ansia”, “depressione”, “schizofrenia” e “nevrosi” sembrano appartenere solo agli esseri umani e non ai sistemi. Per me così non è. Almeno non in senso così assoluto. Di base c’è comunque l’aspetto chimico e fisiologico ma c’è anche un aspetto comportamentale, sociale e economico troppo spesso non considerato che comunque agisce. Penso agli studi di Marazzi sul legame tra postfordismo e sindrome bipolare o a Deleuze e Guatteri che evidenziano come la schizofrenia segni il limite esterno del capitalismo o a Bifo che collega il senso di impotenza degli individui nel contesto socioeconomico a forme di depressione molto acuta. Ansia e attacchi di panico sono all’ordine del giorno al punto che i piani welfare aziendale prevedono un parziale riconoscimento dei costi per ansiolitici e terapie psicologiche. Oppure assistiamo al fiorente nascere di corsi di mindfulness di cui beneficiano molti lavoratori come se fosse la soluzione per tutti i mali. Insomma mi sembra di percepire che quelli diagnosticati sono sempre meno dolori dell’anima e sempre più rigurgiti del cuore e della mente dell’individuo di fronte a un sistema che non funziona per l’uomo ma solo per la produzione e per la merce. La comunità degli psichiatri o degli psicologi tende a essere elusiva su questi componenti perché comunque legata alle industrie farmaceutiche o forse non attrezzata alla comprensione della complessità di queste cause.
Dimmi qualcosa sui distici della seconda metà della silloge e sulla variante dei primi articoli della costituzione.
Sia i distici che la riscrittura della Costituzione Italiana hanno forte elemento di denuncia e dicono tutto ciò che devono dire. Parlano della stanchezza di chi un lavoro non lo ha e vorrebbe averlo e ogni giorno “lavora gratis” per trovarlo ma anche della componente del “rimpianto” che molti della mia generazione hanno perché credono di non aver osato abbastanza. Il che in parte è vero ma anche no. Quello che ci siamo trovati è un mercato del lavoro in stagnazione di cui non avevamo minimamente contezza perché i nostri genitori ci dicevano che bastava studiare per avere un buon futuro per poi trovarci sotto la doccia gelata della realtà che però, c’è da dire, anche politici e insegnanti non ci hanno mostrato per ciò che era. Non tutti insomma hanno avuto la capacità e la possibilità di reagire e dunque si sono “accontentati” o hanno dovuto comprendere che le aspettative erano davvero troppo alte e il contesto non molto fertile al “nuovo”. La nostra è una società intrisa ancora di familismo amorale, clientelismo, atteggiamenti mafiosi e a questo è ancora troppo ancorata per fare quel movimento, non dico rivoluzionario ma quantomeno provare a reagire, per provare a respirare aria buona.
Lo dici nell’ultima parte del libro ma te lo richiedo: cos’è per te la poesia?
La poesia è contemplazione, è strumento di conoscenza, è preghiera laica. La poesia è quell’attimo di senso e suono che d’improvviso si palesa in un’immagine e in un’espressione. In quanti hanno provato a definire la poesia e quanti hanno fallito? La poesia non è soltanto una forma letteraria o un qualcosa che nasce da esseri dotati di una particolare sensibilità. La poesia è anche un modo di essere al mondo. Un modo di pensare e fare dunque essenzialmente AZIONE QUOTIDIANA!
Ilaria Palomba