Attraverso Il sistema del tatto (edito Edicola Ediciones), Alejandra Costamagna narra i dolori invisibili: la distanza emotiva nel rapporto tra padre e figlia, lo sradicamento e le migrazioni, l’inesplicabile declino familiare. La protagonista attraversa le Ande, che sono confini della sua esistenza: c’è una vita vissuta in Argentina e un’altra che si svolge in Cile; a fare da ponte, l’Italia degli avi, con i loro bagaglio di sogni e di difficoltà. Sulla soglia dei quarant’anni, si reca a Campana (in Argentina) per assistere al funerale del cugino Agustín, testimone malinconico dei suoi primi anni di infanzia. Nel tentativo di ridefinire la propria identità, si imbatte nelle case del passato, dove albergano gli spiriti familiari: il malessere della prozia Nelida, costretta a migrare dall’Italia, gli esercizi a macchina del cugino, le fotografie occultate e gli stralci di lettere.
Con addosso una felpa e la sua fragilità, Ania impara la lezione: planare sul panorama familiare senza cadere nel vuoto, “confrontare il ricordo con la rovina” e poter spiccare finalmente il volo.
Le case e l’identità
In un passaggio di Sopra eroi e tombe (edito Einaudi), Ernesto Sábato riflette sull’ambiente domestico, affermando che «non sono i muri, né il soffitto né il pavimento che danno carattere alla casa, ma gli esseri che la rendono viva con le loro conversazioni, le loro risate, i loro amori e risentimenti». Nel romanzo di Costamagna, gli edifici sono musei a cielo aperto, nidi in cui non c’è più posto per i nascituri: in Cile, Ania si cerca tra le foto appese da suo padre, dove non c’è traccia di lei; il semplice fatto di apparire sulla parete, avrebbe rinvigorito la sua volontà di esistere. Mentre si trova a Campana, pensa che «dovrebbe mettersi nella pelle degli altri, non solo nelle case. Non solo prendersi culla delle loro proprietà: fondersi in loro, diventare loro», cedendo all’istinto di lasciar andare se stessa pur di sentirsi parte di qualcosa. Ci sono tre luoghi domestici che determinano il suo vissuto: le due case di Campana (una dei nonni e l’altra di Nelida e Agustín), con il loro alone di follia e decadenza, e quella in Cile che non ospita un quotidiano felice. Ovunque vada, i racconti familiari diventano ossessionanti: Nelida che aveva ingoiato delle pasticche, Gariglio e i suoi romanzi dell’orrore, Agustín che vorrebbe cercare aiuto ma sprofonda in se stesso. Nel caos emotivo, Ania si osserva il corpo: vuole essere certa di esistere e di poter costruire un nido tutto suo.
Migrazioni
La migrazione comporta spesso una difficoltà di adattamento, un cambiamento di prospettive: per Nelida, che è obbligata a sposare suo cugino Aroldo, l’Argentina diventa terreno fertile per i deliri. Bella come Silvana Mangano, è costretta a lasciare l’Italia, alla volta di un paese sconosciuto; l’unico strumento che possiede è “Il manuale dell’emigrante italiano all’Argentina”, che Costamagna inserisce nel romanzo. Col passare degli anni, si trasforma in una specie di madre distruttrice o fagocitante, che involontariamente impedisce ad Agustín di vivere la propria vita: è allarmato quando vede Ania che trascorre le giornate con Nelida, avrebbe voglia di scappare con la bambina e proteggerla dall’abisso familiare. Percepisce la chilenita come una sorella da salvare, alla stessa maniera di chi osserva i propri traumi riproporsi negli altri. Durante il viaggio a Campana, Ania ritrova delle foto di Nelida: la prozia sta visitando i parenti in Italia e sorride spensierata. Sono immagini descritte minuziosamente, affinché gli istanti non si consumino: quel pronome personale “yo” , scritto in corsivo, fa sentire la donna presente e radicata. L’idillio dura poco, ma Nelida non ha più forze per reagire: è bastato il primo torto, la sua vita diretta da qualcun altro, a renderla «per sempre all’erta di fronte al pericolo».
Il rapporto con il padre
Ania percorre lo stesso viaggio dell’infanzia, con due elementi di novità: la solitudine e l’aereo. Con il padre aveva macinato chilometri a bordo della Due Cavalli, fermandosi ai distributori di benzina: non c’è traccia di dialogo intenso nella narrazione, piuttosto scenari rievocati. L’Ania bambina gioca a catturare farfalle, che le ricordano «uccelli senza canto né piume», mentre il padre le insegna a non rimuovere la polverina che ricopre le ali: morirebbero, altrimenti, per questo la bambina le tratta con cura e si fa «chirurga dei suoi uccelli senza canto». È questa un’immagine di delicatezza, un’iniziazione al sistema del tatto sul quale gioca l’intero romanzo: Ania sa già che dovrà misurare le distanze con accortezza, impedire al dolore di diventare un tutt’uno con la vita. In un rapporto padre-figlia che è spesso silenziato ed intermittente, il viaggio in solitaria significa responsabilità, sentirsi addosso il peso dell’esistenza: la protagonista vuole spiccare il volo, prendere il posto di suo padre. A fare da ponte tra i due, Javier, il compagno di Ania: un personaggio poco delineato, poco presente come figura maschile, se non attraverso il suo ruolo di “messaggero” dal Cile. Ci si immagina, nel romanzo, una donna che comincia davvero a scegliere: rimossa l’ombra paterna e osservate le proprie fragilità, da chirurga diventa stenografa dei propri desideri.
Alejandra Costamagna, con il suo stile innovativo e aperto alle infiltrazioni letterarie, crea una metafora dell’identificazione: aprire le finestre del passato e smistare tra le vecchie foto, senza temere di inciampare i noi stessi.
Rebecca Cicchetti
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