Siamo nel sud, ai piedi del Gargano, in un paesino diventato famoso per aver ospitato una figura dalla popolarità prorompente. Stiamo parlando di San Giovanni Rotondo, luogo dove a lungo soggiornò Padre Pio da Pietrelcina, venerato già come santo quando era in vita, grande personalità capace di suscitare slanci di fede o profonde diffidenze.
Nel suo romanzo d’esordio intitolato La fabbrica del santo (Ianieri Edizioni, 2020), Leonardo Gliatta ci racconta una terra attraversata da una religiosità febbrile che si mischia con le credenze superstiziose tipiche della provincia meridionale. Il confine tra il bene e il male, il giusto e l’inopportuno, l’estasi della carne e l’eccitazione dello spirito non è marcato da una linea perentoria, ma si delinea piuttosto come un’area sfocata entro la quale il passo da compiere per passare dalla salvezza alla perdizione – o viceversa – è molto breve.
La storia ruota attorno a tre personaggi principali, che occupano i vertici di un immaginario triangolo: ciascuno di essi è connesso simultaneamente agli altri due, e ogni tentativo di forzare questo precario equilibrio si rivela un atto distruttivo che rigenera dolore nelle loro vite. Valentino e Tore vedono nascere la loro amicizia nel segno del conflitto e della rivalità. Però, più la rivalità è grande e maggiore sembra essere la pulsione che li spinge l’uno contro l’altro. Sono due ragazzi dalla discendenza diametralmente opposta per prestigio sociale, cultura e censo. Gliatta sintetizza simbolicamente questa differenza presentandoci le loro nonne a mo’ di marchio genealogico: quella di Valentino è religiosissima, quella di Tore avversa al sacro; pia la prima, dissoluta la seconda. Persino i loro nomi mostrano una chiara polarizzazione tra i due lignaggi: quello della nonna di Valentino rimanda al sacro uliveto in cui Gesù si mise in preghiera prima di essere arrestato, mentre la nonna di Tore, ex prostituta, ha il nome che popolarmente si attribuisce all’erba infestante, tanto odiata per il fastidio che arreca e tanto difficile da sradicare come una maledizione.
La polarizzazione assiologica tra bene e male all’interno del conflitto tra Valentino e Tore, però, non è così scontata. A Valentino non tocca necessariamente la parte del giusto, né Tore è destinato al ruolo di chi pratica il male. Nella loro rivalità avvengono spesso degli sconfinamenti da entrambi i lati, in una crescente alternanza di generosità e tradimenti che somiglia a una danza complessa, a una partita di scacchi dove imperscrutabili risultano mosse e strategie. Ma si tratta di una danza che avvinghia, di una partita che appassiona e unisce ineluttabilmente, assumendo delle coloriture di erotismo e di promiscuità che non possono non aumentare nel momento in cui entra in scena Marida, colei che siede sul vertice più alto del triangolo e che determina la direzione della lotta tra i due contendenti.
Sullo sfondo di questo travagliato ménage, l’arrivismo di Valentino – ispirato alla figura di Onassis per ostinatezza, ambizione e fame di successo – è foriero di lussuosi traguardi: in Valentino sarà proprio la propensione al materialismo il denominatore comune di tutte le azioni della sua vita, un denominatore che mescolerà proprietà e sentimenti, osannando la ricchezza e reificando le relazioni. L’opulenza che Tore non può offrire a Marida è invece il presagio di una scelta di vita all’insegna della povertà, nella quale lo spirito riuscirà ad affrancarsi dai legami che lo rendevano schiavo già ai tempi in cui era impossibile rompere “quel cerchio invisibile” che avvinghiava i protagonisti.
La storia è raccontata con un linguaggio diretto e ben ritmato che a volte si concede degli sprazzi di lirismo ben riuscito, il più delle volte riferendosi alle descrizioni della luce e del paesaggio mediterraneo. Ma, al di là dello stile, se volessimo guardare in controluce tutto il romanzo di Gliatta per cercare di intravederne un messaggio più generale, potremmo dire che esso è una miniera di opposizioni: bene e male, fede e superstizione, amore e possesso, amicizia e invidia, felicità e dolore, San Michele Arcangelo e il Maligno, sacro e profano, purezza e peccato, integrità e depravazione, lealtà e infedeltà: lo sfondo, dunque, è certamente la descrizione di una conflittualità continua e turbolenta. Ma se continuassimo nel nostro intento e cercassimo un filo conduttore capace di legare le vicissitudini che accompagnano i protagonisti nell’arco del decennio lungo il quale si snoda la storia, potremmo azzardare che il vero filo conduttore è la paternità. Nelle battute finali del romanzo Tore sente posarsi sopra la propria spalla la mano del padre di Valentino. Tore aveva perso il padre da bambino e, forse senza che nemmeno lui stesso se ne accorgesse, erano stati in molti a cercare di riempire quel vuoto parentale: i frati cappuccini del convento che frequentava da piccolo, la nonna paterna che mostrava una profonda avversione al sacro, il padre di Valentino che in Tore apprezzava l’assennatezza più che nel proprio figlio biologico. Nell’assenza di un vero padre, Tore sperimenterà – non sempre consapevolmente – alcune vie per introiettare questa figura che la vita gli aveva negato al fine di concretizzarla nella propria persona; in un modo o nell’altro, alla fine riuscirà nel suo intento malgrado gli ostacoli disseminati lungo il cammino da chi invece avrebbe dovuto volergli bene e aiutarlo.
Giuseppe Raudino
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